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 23  gennaio 2013 - 12 Shevat 5773
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alef/tav
david sciunnach
David
Sciunnach,
rabbino 


“Allora cantò Moshè, insieme ai figli d’Israele…” (Shemòt 15, 1). Approfondisce l’Admor, Rabbì Yehudà  Leib di Gur, conosciuto per il suo commentario come Sefat Emèt, che i figli d’Israele cantarono la Shiràt ha-yàm - la cantica sul mare, poiché ottennero nella medesima situazione due grandi doni spirituali, che sono: “il timor di Dio e la fede in Dio”. Difatti il testo dice: “Il popolo temette Dio e credette in Dio e in Moshè suo servo” (Shemòt 14, 31). Allora sì che c’era ragione di cantare!

 Davide 
Assael,
ricercatore



Davide Assael
Pochi giorni fa leggevo una dichiarazione di un politico (non importa di che partito), che, in riferimento alle elezioni lombarde dichiarava, “Abbiamo già vinto, ormai non si fanno più neanche i sondaggi”. Con un tono molto simile a quello di una sfida a calcetto fra amici. Ce n’è poi uno, davvero straordinario, che non perde occasione per ricordare come la Germania debba accollarsi i nostri debiti e stare zitta. Poi, se le ridiamo i soldi bene, se no, amen. Ed il soggetto in questione scrive sul tema libri in serie, con tanto di qualifica “I” e “II”, in stile Rambo e Rocky. Ce n’è altri, invece, che hanno permesso a qualcuno di candidarsi alle primarie del proprio partito, per poi farlo escludere da una commissione di saggi, che, non si capisce come mai non sia stata attivata all’origine. Uno, poi, davvero fuori classifica, che, condannato e pluri-inquisito, esclude altri perché, udite udite, hanno problemi con la giustizia. Salvo poi spiegare che sono dei perseguitati e che non li candida perché gli farebbero perdere consenso. Quando si dice la chiarezza! C’è poi quello che definisce il proprio movimento ecumenico, così da poter imbarcare fascisti dichiarati (ancora con queste ideologie!). E’ sempre quello che ha fatto della democrazia interna il proprio faro, salvo escludere chi non si allinea a lui e al suo amico coi boccoli grigi, quello che prevede che entro il 2050 esisterà la democrazia del web, ma passando per guerre e pestilenze che ridurranno la popolazione mondiale di quattro o cinque miliardi di persone; insomma, la politica come fonte di speranza. A conti fatti, questa campagna elettorale abbassa ulteriormente la soglia minima di decenza. E non è un problema solo italiano, ma di tutto l’Occidente. Anche le elezioni israeliane non hanno fatto eccezione. Mi si dirà, “Amico, è la democrazia!” E qui rispondo con le parole di un altro candidato: “Ehi ragazzi, ma siam pazzi?!”.

davar
Israele - Lo spettro dell’ingovernabilità
“È nudo”. A fornire, con tagliente ironia, una fotografia dell’esito di quelle che dovevano essere le elezioni più scontate della storia d’Israele è il grande vignettista Michel Kichka di cui Pagine ebraiche di febbraio attualmente in distribuzione presenta il nuovo libro “Ce que je n'ai pas dit à mon père” (Seconda generazione. Quello che non ho detto a mio padre - Dargaud).  Ispirandosi alla favola del re nudo, Kichka ritrae il vincitore annunciato Benjamin Netanyahu, uscito ridimensionato dalle urne, con l’immagine del suo alleato Avigdor Lieberman a tentare di nascondere la notizia della sua debolezza. Nel frattempo i tre leader di centro-sinistra, Shelly Yachimovich del Labor, Yair Lapid di Yesh Atid e Tzipi Livni di Hatnua, gridano la verità. A reggere il mantello di Netanyahu, il suo ex pupillo e ora rivale (ma probabilmente anche indispensabile alleato) Naftali Bennett di Habayit Hayehudi che svela invece la sua prospettiva “E’ nullo”. A indicare come, nel fare da puntello a una eventuale coalizione di destra, rappresenterà un forte condizionamento per Netanyahu. Già perché mentre sono state scrutinate oltre il 99 per cento delle schede (risultati complessivi Likud-Beytenu 31 seggi, Yesh Atid 19, Labor 15, Shas e Habayit Hayehudì 11, United Torah Judaism 7, Hatnua e Meretz 6, i tre partiti arabi Ta’al, Balad e Hadash 5, 4 e 3,  Kadima 2), il risultato è un sorprendente pareggio. E dietro la notizia che, nel complesso, le formazioni che vengono considerate di destra (inclusi i partiti religiosi) e quelle considerate di sinistra (inclusi i partiti arabi) hanno ottenuto 60 seggi ciascuna, si cela lo spettro dell’ingovernabilità, che incombe sui tentativi già in corso di formare alleanze di governo. Un processo che formalmente potrà iniziare soltanto fra una settimana, quando gli esiti ufficiali verranno comunicati al presidente Shimon Peres, il quale, salvo ulteriori colpi di scena, affiderà l’incarico a Netanyahu .
Già oggi è tuttavia possibile tracciare alcuni punti fermi: lo straordinario successo di Yair Lapid, che è andato oltre ogni aspettativa, l’insuccesso di Netanyahu, che se nella precedente Knesset poteva contare su 42 parlamentari tra Likud e Beytenu, oggi ne ha soltanto 31, l’affermazione, anche se meno potente delle aspettative, del punto di riferimento politico degli insediamenti Habayit Hayehudì.
“La mia previsione è una piattaforma formata da Likud-Beytenu, Yesh Atid e Habayit Hayehudì, cui eventualmente potrebbe aggiungersi Kadima, e secondariamente Shas – spiega Sergio Della Pergola, demografo dell’Università di Gerusalemme – Una coalizione del genere avrebbe i numeri per governare dal punto di vista aritmetico. La verità è che questa legge elettorale è oggi drammaticamente inadeguata per un paese avanzato, con problemi complicati da gestire che richiedono un governo stabile. Anche se storicamente ricordiamo un’altra situazione simile, quando nel 1984 Yitzhak Shamir e Simon Peres diedero vita a un governo di coalzione Labor-Likud, basato su un patto di ‘rotazione’: fu primo ministro Peres per due anni, poi toccò a Shamir”. La difficoltà di Netanyahu viene messa in luce dal professore anche sotto un altro punto di vista “Per arginare l’emorragia dei voti verso Bennett, Bibi ha presentato candidati ancora più a destra di lui. Per di più, nell’ambito dei 31 seggi conquistati, solo 20 fanno riferimento al Likud, gli altri sono di Yisrael Beytenu. E non è escluso che presto o tardi decidano di dare nuovamente vita a una formazione parlamentare autonoma, come aveva promesso Lieberman prima delle elezioni”. “Penso che i più clamorosi sconfitti di questa tornata elettorale siano i sondaggisti – fa notare il semiologo Ugo Volli – Questo è un segno dell’incredibile vitalità della democrazia israeliana, che rifiuta di farsi ingabbiare in schemi precostituiti. Yair Lapid ha condotto una campagna elettorale un po’ obamiana, vicina alle esigenze di quella classe media laica e moderna di tipo americano. Il suo grande risultato rappresenta un’affermazione dei temi sociali ed economici come interesse forte degli israeliani, a discapito della scelta di Netanyahu, evidentemente sbagliata da un punto di vista strategico, di puntare sulla politica estera, e di quella di Tzipi Livni di spendersi sui negoziati di pace. Emerge però anche una profonda polarizzazione del paese”.
“Ciò che caratterizza queste elezioni in modo abbastanza trasversale è l’esigenza di andare oltre determinate rivendicazioni dell’ebraismo haredì. Questo è a mio parere il punto in comune tra Yair Lapid e Naftali Bennett, i leader usciti vittoriosi dalle urne: pur nella loro estrema diversità, laico Lapid e datì Bennett, entrambi hanno fatto un punto della loro offerta politica la volontà di arruolare nell’esercito anche i haredìm e di ridimensionarne l’influenza nel paese” il commento della giornalista Anna Momigliano.
Nonostante l’estrema frammentazione del Parlamento un dato emerge in modo positivo, secondo Sergio Della Pergola: con tutte le sue debolezze, il sistema israeliano è stato capace di produrre due leader nuovi, giovani e preparati, al di là di come la si pensi a proposito delle loro idee. Anche se, denuncia il demografo “dietro al volto fresco di Bennett, si nascondono candidati con posizioni estremiste e impresentabili, complice la legge elettorale dalle liste bloccate. Bisognerà vedere se Bibi dimostrerà di essere un bravo politico, capace di mantenere in piedi un governo eterogeneo di fronte alla sfide che lo attendono, prima di tutto una dolorosa legge di bilancio da approvare entro giugno - conclude - La mia previsione è che questa Knesset non durerà quattro anni”.

Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked

Israele - Un pareggio a sorpresa
Le elezioni legislative del 22 gennaio sono sfociate in un pareggio fra la destra e la sinistra ognuna delle quali detiene oggi 60 seggi alla Knesset. La grande sorpresa di queste elezioni è stata la strepitosa vittoria di Yair Lapid, che ha ottenuto 19 seggi con una lista di sconosciuti, ed è lui stesso una novità nel campo politico. Il suo programma consiste nel favorire i ceti medi: adottando la terminologia italiana, si potrebbe dire che ha fondato un partito qualunquista. Appena resi noti i risultati delle proiezioni, il premier attuale Netanyahu gli ha telefonato per congratularsi con lui. Non si sa per ora con chi Lapid si alleerà, ma molto probabilmente sceglierà il campo di Netanyahu. Questi, in declino, ha ottenuto solo 31 seggi insieme a Lieberman e non è chiaro con quali formazioni vorrà coalizzarsi per raggiungere la maggioranza. La sinistra è spezzettata in tre partiti: quello di Shelly Yachimovich, laburista, con 15 seggi, quello di Tzipi Livni (che ha candidato tra gli altri gli ex capi del Labor Peretz e Mizna) con 6 seggi, e quello di Zahava Gal On, Meretz, che ha raddoppiato i suoi seggi raggiungendo i 6 deputati. Queste tre formazioni non sono riuscite a mettersi d’accordo prima delle elezioni, né tra di loro, né, tanto meno, con Lapid. Dubito che ci riescano ora. Si profila quindi un governo capeggiato da Netanyahu con l’appoggio di Lapid e forse di Tzipi Livni nonché del partito religioso Shas. Un governo simile è possibile, ma a costo di forti pressioni interne in contrasto fra di loro. Se Netanyahu mantiene la linea dura nei confronti di Abu Mazen, difficilmente un ministro degli Esteri, forse Livni, riuscirà a trovare un terreno di intesa coi Palestinesi. Ciò è vero anche nella politica sociale che, come hanno dimostrato le manifestazioni popolari, dell’estate 2011, preoccupano la maggioranza della popolazione. Certo è troppo presto per fare previsioni sulla formazione del prossimo governo ma è evidente che sarà difficile e laboriosa.
La partecipazione al voto è stata vicina al 70 per cento e i risultati sono sorprendenti. Essi esprimono il desiderio di un cambiamento radicale, ma non forniscono sufficienti elementi per realizzarlo, almeno per ora.

Sergio Minerbi, diplomatico

Qui Caserta - L'infamia delle persecuzioni
Inaugurata questa mattina alla Reggia di Caserta la mostra 1938-1945 La persecuzione degli ebrei in Italia organizzata dal Ministero dell'Interno e dalla Prefettura in occasione del Giorno della Memoria. Allestita nei vecchi appartamenti reali, la mostra – basata sull'omonima esposizione sugli eventi nazionali realizzata dalla Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea Cdec di Milano e già presentata a Torino e Venezia – è arricchita da uno specifico focus sulla persecuzione nel casertano e in Campania realizzata in collaborazione, tra gli altri, con la Soprintendenza per i beni culturali, l'Archivio di Stato e la Comunità ebraica di Napoli. Quest'ultima oggi rappresentata dal suo presidente Pierluigi Campagnano che – con grande emozione – nel guidare il folto pubblico presente attraverso gli spazi espositivo ha ricostruito i passaggi essenziali della vita della kehillah partenopea negli anni più duri e fornito spiegazioni inerenti ai numeri e alle storie della deportazione.
Nel suo intervento – pronunciato prima del taglio del nastro tricolore – Renzo Gattegna, presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ha voluto ricordare vari momenti di quel settenato d'infamia tra cui la promulgazione della legislazione antiebraica del 1938 specificando come il giusto attributo da legare a quell'atto persecutorio sia più propriamente “razzista” e non “razziale”. Dal presidente dell'Unione sono poi giunte parole di elogio per l'impegno congiunto di comunità ebraiche e istituzioni per la diffusione di una cultura della Memoria consapevole in tutta la società italiana. Tra gli appuntamenti presi in esame il viaggio ad Auschwitz-Birkenau e Cracovia degli scorsi giorni e la firma, in quella circostanza, di due importanti dichiarazioni con i ministri Profumo e Fornero. Michele Sarfatti, direttore del Cdec, ha quindi illustrato le specificità della mostra nella parte di competenza dell'istituto milanese. Il percorso storico a cura di Alessandra Minerbi, come è stato ricordato, offre un quadro vasto e complesso su quelli che furono i meccanismi alla base della persecuzione. La stessa complessità che Sarfatti, nel rivolgersi alla giovane platea, ha chiesto agli studenti casertani nello sforzo di affrontare questo buio periodo storico lontano da qualsiasi semplificazione e cliché. Vi fu infatti chi collaborò alla macchina liberticida e chi vi si oppose. La cosa più importante, ha esortato, è scavare a fondo e cercare di capire con cognizione di causa gli ingranaggi del meccanismo. “Si tratta di una storia che va conosciuta e compresa. Soltanto con la consapevolezza – ha infatti affermato – si può costruire la base per un rifiuto netto del razzismo, dei pregiudizi, delle intolleranze in genere”. Interventi, tra gli altri, anche del sindaco di Caserta Pio Del Gaudio, del sottosegretario Saverio Ruperto in rappresentanza del ministro Cancellieri, del sottosegretario del prefetto Carmela Pagano e del sovraintendente Raffaella David. Col taglio del nastro l'inizio della visita in Galleria Palatina. Una mostra di altissimo profilo e spessore, racchiusa in uno degli scenari più suggestivi dell'Italia dei palazzi e dei mille tesori architettonici.

Adam Smulevich twitter@asmulevichmoked

La Memoria della salvezza e il lavoro del CDEC
Il CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) è riuscito a determinare ad oggi la sorte di 8.886 ebrei salvatisi durante il periodo 1943-1945. L’obiettivo che ci si era posti 4 anni fa di trovare i nomi di tanti salvati quanti sono state le vittime della Shoah è stato, proprio in questi giorni, pienamente raggiuntoe superato. Con una ricerca di storia sociale di larghissimo respiro e con appositi finanziamenti di enti, di fondazioni bancarie e difondazioni private, uno staff di ricercatori ha effettuato 650 interviste a ultraottantenni in tutta Italia, ha selezionato 210 libri di memorie, ha sondato migliaia di documenti. Ha raccolto così una vasta documentazione sul fenomeno della salvezza dei circa 33mila ebrei ritrovatisi vivi in Italia nel 1945 dopo la bufera degli arresti e delle deportazioni. Si hanno ora i nomi di quei salvatiche si sono potuti ottenere a distanza di tanti anni, i loro dati anagrafici, il racconto della loro vicenda. Naturalmente, non si tratta di tutti i salvati, gli ottimi risultati raggiunti sono da considerare un campione dell’intero insieme. Ma, cosa molto importante: si hanno anche i nomi dei generosi non ebrei che, per impegno umanitario, sociale, religioso si sono prestati a soccorrerli. Chi ha aperto la propria casa, chi ha ricoverato in strutture ospedaliere, chi in istituti religiosi, chi ha accompagnatoalla frontiera settentrionale con la Svizzera, chi ha guidato al di là delle linee di guerra al Sud, chi ha prestato denaro, chi ha procurato documenti falsi. La ricerca, che può considerarsi la più avanzata su questo argomento  in Europa, sarà pubblicata dall’editore Mursia nei prossimi anni. Avremo così, accanto a Il libro della Memoria, anche il libro Memoria della salvezza.

Liliana Picciotto, storica
Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea

Qui Roma - Sfide del lavoro e contributo ebraico
Prende come riferimento il Talmud ed estratti di pensiero dei grandi Maestri il rabbino capo di Roma, rav Riccardo Di Segni, per elaborare da una prospettiva ebraica l'argomento “Formazione, Giovani e Lavoro” scelto dalla Fondazione Aises – International Academy for Social and Economic Development – come tema di un intenso confronto svoltosi ieri a Palazzo Montecitorio. L'appuntamento, giunto alla terza edizione, vede confrontarsi nella Sala Regina, la stessa sala dove è solennemente ricordata con una targa l'infamia delle Leggi Razziste ministri, economisti, esperti di lavoro e di formazione. Con loro anche due rappresentanti del mondo religioso, oltre al rav Di Segni monsignor Lorenzo Leuzzi, vescovo ausiliare di Roma – per una comprensione a 360 gradi che, spiega il presidente di Aises Valerio De Luca, “non può prescindere dalla centralità rappresentata nelle nostre società da aspetti etici, morali, spirituali”. Citando il Talmud (trattato Kiddushin) il rav si sofferma  sui doveri del padre verso il figlio, in primis quello di insegnargli un lavoro. Perché, come hanno commentato alcuni Maestri, il padre che non insegna al proprio figlio un lavoro “è come se gli insegnasse a rubare”. Il mondo del lavoro è profondamente cambiato da allora e con esso l'intera società di contorno ma il tema della formazione resta comunque, in ambito ebraico, una pietra miliare. “L'ebraismo – ha affermato il rav – insegna il rispetto fondamentale per lo studio. Un principio irrinunciabile che ha attraversato i secoli, un vero e proprio approccio religioso verso i libri e verso la logica”. Nel suo intervento rav Di Segni, riprendendo il filo di un discorso apertosi lo scorso anno con Ettore Gotti Tedeschi, ha quindi voluto lanciare un appello alla fiducia, a fare figli, a cementificare nell'unità familiare la speranza di un futuro migliore. Edith Anav, responsabile Aises per il dialogo interreligioso, aveva precedentemente parlato di scommessa sui giovani “come urgenza di una società che vuole sostenere uno sviluppo sostenibile”. E allora questo il suo interrogativo: come può ognuno di noi, ciascuno nella propria area di competenza, dare un contributo a questa sfida? “Coerenza e credibilità, è questo che i giovani si aspettano da noi”. Denso e ricco di stimoli l'intero incontro. A partire dagli interventi dei due ministri più direttamente coinvolti nelle tematiche oggetto di confronto: Francesco Profumo, ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca; ed Elsa Fornero, titolare del Lavoro e delle Politiche Sociali. E se il primo ha invitato a una profonda trasformazione del sistema stesso dell'istruzione alla luce di un mercato del lavoro che guarda sempre più all'Europa e al mondo intero, la seconda ha invitato a ridurre la distanza tra formazione e ingresso nella sfera professionale per poi rivolgere un accorato appello affinché concordia e cooperazione tra tutte le parti in causa possano contribuire alla costruzione di maggiori opportunità per i giovani. Ad intervenire anche Paolo Annunziato, direttore generale del Consiglio Nazionale delle Ricerche, e Luigi Abete, presidente di Bnl Italia.

a.s.

Melamed -  Un voto per la scuola
Marco Rossi Doria, sottosegretario all’Istruzione ed ex maestro elementare, ha pubblicato qualche giorno fa sulle pagine de La Stampa un intervento molto duro su come la politica sembri aver abbandono la scuola, anche nella presente campagna elettorale. Ciononostante nelle sue parole sono evidenti l’entusiasmo, la passione e anche l’ottimismo quando, descrivendo i risultati di una sua inchiesta sullo stato della scuola in cui ha intervistato docenti e dirigenti di tante scuole, scrive: “Emergeva una scuola competente e battagliera.
Che s’interroga sul futuro educativo del Paese. E che innova nonostante le difficoltà. Cose concrete…”. Tutte cose concrete, e belle, ed entusiasmanti, che però vanno a scontrarsi con il fatto che la scuola italiana è stata indebolita da un disinvestimento culturale e politico che si è tradotto in tagli per 8,4 miliardi di euro nel triennio 2008-2011. Come ricorda ancora il sottosegretario si tratta di una cesura fortissima nella storia d’Italia: mai prima, né in periodi economicamente difficili né nei momenti della crisi e della ricostruzione erano stati tolti così tanti soldi al sistema scolastico. Anche dal punto di vista prettamente economico sono scelte in controtendenza, perché sia il pensiero economico socialdemocratico che quello liberale riconoscono nell’istruzione sia il principale fattore coesione sociale e di discriminazione positiva a favore di chi parte da una posizione svantaggiata che la prima leva per una crescita equilibrata e duratura e per l’uscita dalle crisi.
E le parole di Marco Rossi Doria diventano quasi un appello quando dichiara “Ora è assolutamente vitale riprendere una seria politica di investimento. Ci vuole una stagione capace di produrre un’inversione di tendenza, un cambio di rotta. Bisogna, infatti, passare dalla logica della spesa a quella dell’investimento. Non c’è Paese al mondo che affronti questa crisi tagliando i fondi per il sapere.

Si tratta, insomma, di operare una sostanziale innovazione nel paradigma con il quale l’Italia guarda alla sua scuola e discutere del come reperire le risorse necessarie. Significa anche restituire a docenti e alunni la possibilità di guardare al domani della propria comunità con fiducia e speranza, non doversi trincerare nella difesa e nel mantenimento di quel che c’è e progettare il futuro attraverso nuove e più avanzate proposte.
Ecco perché questa campagna elettorale deve parlare da subito di scuola.”
Una campagna elettorale deve essere capace di guardare avanti, partendo da un appoggio forte e chiaro al sistema scolastico, non può lasciare l’impressione di avere perso di vista il futuro. La posizione del sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria è sicuramente rilevante anche per la realtà ebraica italiana tutta, soprattutto visto che è da tempo in corso un vivace dibattito sul futuro delle sue istituzioni culturali e formative, un dibattito che tocca temi essenziali sia per l’identità sia ebraica che, più in generale, per le minoranze. E allora bisogna appropriarsi delle parole del sottosegretario: “In questi giorni sento una fortissima urgenza: che si parli di scuola, di com’è, di come deve diventare. In modo positivo e dunque riparativo e innovativo. E rispettoso e dunque partendo da quel che già si fa.”

Ada Treves, twitter@atrevesmoked

Qui Roma - Clemente Mimun, Pippo Baudo e la maestra
Grande partecipazione al Pitigliani per la presentazione del libro del direttore del tg5 Clemente Mimun, Ho visto cose. Questo è il secondo incontro, nato dalla collaborazione di Delet e Assessorato ai giovani con il Centro di Cultura Ebraica e Ugei, che verte intorno ad alcuni personaggi di spicco del giornalismo italiano. Dopo Paolo Mieli e Mimun seguirà a breve Claudio Pagliara. A moderare Fabio Peugia, sostenuto dai giovani della Comunità. La serata è stata un amarcord in ricordo dei bei (e meno belli) tempi andati, con alcune chicche irrinunciabili su personaggi della storia italiana. A ravvivare i toni, la presenza di Pippo Baudo. "Averla come ospite è più o meno come avere Cavour, Mazzini...", scherza Perugia. "Sì, ma io sono ancora vivo", tende a sottolineare il pimpante Baudo. Emozionante l'incontro tra Mimun e la sua morah delle elementari Emma Alatri. "Clemente era uno spirito libero, vivace, con le idee chiare e sopratutto testardo" lo descrive commossa. "Lei è stata davvero una maestra come non ce ne sono più - risponde lui- ricordo ancora che al mio bar mitzvah, non avendo le possibilità di comprare un abito adatto, è andata lei stessa a cercarmelo. Se non ci fosse stata quando sono arrivato in classe, sperduto e francofono, non ce l'avrei mai fatta." Tra il Pippo nazionale, il presidente della Comunità ebraica Riccardo Pacifici e la maestra più amata di sempre, la serata dedicata a Mimun è stata un'amalgama riuscita di scoop e confidenze tra amici. Tanto che la solitudine da numero uno, da lui raccontata nel libro, si è fatta sentire un po' di meno.

Rachel Silvera

Qui Roma - Le leggi razziste e la persecuzione
Presentato questa mattina a Roma nella Sala Alessandrina dell'Archivio di Stato, il volume digitale Le leggi razziali e la persecuzione degli ebrei a Roma. 1938-1945, a cura di Silvia Haia Antonucci Pierina Ferrara, Marco Folin, Manola Ida Venzo, consultabile anche online sui siti  www.mumeloc.it/archivio-multimediale/testi/, www.romaebraica.it/archivio-storico-ascer/, www.archiviodistatoroma.beniculturali.it. All'iniziativa che rappresenta solo una di quelle organizzate per celebrare il Giorno della Memoria da parte dell'Archivio Storico della Comunità ebraica di Roma sono intervenuti Massimo Bassan assessore responsabile dell'archivio comunitario, il direttore dell'archivio di Stato, Eugenio Lo Sardo, Paolo Masini Consigliere di Roma Capitale. Il presidente della Fondazione Museo della Shoah Leone Paserman (nell'immagine a fianco) ha rivolto un saluto al pubblico seduto in sala. L'Archivio di Stato di Roma partecipa alla celebrazione del Giorno della Memoria anche con un'altra iniziativa aperta contestualmente questa mattina: l'esposizione di documenti originali dell'epoca fra i quali gli atti riguardanti don Pietro Pappagallo, il sacerdote che, imprigionato per aver aiutato ebrei e partigiani, morì nell'eccidio delle Fosse Ardeatine. La sua figura ispirò il personaggio del sacerdote interpretato da Aldo Fabrizi in Roma città aperta di Roberto Rossellini, ma anche le circolari originali inviate dalla Direzione generale per la demografie e la razza che ribadivano i molti divieti rivolti agli ebrei.

Qui Bologna - I Giusti per gli ebrei dell'Emilia Romagna
In occasione dell'inaugurazione della Mostra “I Giusti tra le nazioni. I non ebrei che salvarono gli ebrei in Emilia Romagna, 1943-1945”, che si è svolta al Museo di Bologna, il Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane David Menasci ha pronunciato il seguente discorso:

Come consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sono lieto di portarvi il saluto in rappresentanza del presidente, Renzo Gattegna, che in questi giorni è impegnato in un viaggio istituzionale ad Auschwitz con i Ministri dell’Istruzione Profumo e con il Ministro della Giustizia Severino. Accompagnano oltre centocinquanta giovani di scuole superiori di tutta Italia, che stanno partecipando a una delle iniziative che più hanno contribuito, alla conoscenza di ciò che è stato, ed all’approfondimento delle tematiche della Memoria della Shoah.
Saluto le autorità civili, militari, religiose, i cittadini, il Rabbino capo, il Presidente e i rappresentanti della Comunità ebraica di Bologna, gli amici del Museo Ebraico.
Il Giorno della Memoria, da quando è stato istituito nel 2000, ha contribuito fortemente alla conoscenza di quanto tragicamente avvenuto solo pochi decenni fa nel cuore del continente allora culturalmente ed economicamente più avanzato. Molte iniziative istituzionali nazionali sono in Italia coordinate dal “Comitato di Coordinamento per le Celebrazioni in Ricordo della Shoah” della Presidenza del Consiglio dei Ministri - al cui tavolo siede anche l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane – che svolge un importante ruolo di “armonizzazione” delle principali iniziative, per evitare il rischio che si sovrappongano e per suggerire le tematiche sulle quali confrontarsi e da approfondire.
L’educazione e la diffusione dei valori morali che ci provengono dalle riflessioni, dallo studio e dalla conoscenza della Shoah, rappresentano l’aspetto più profondo e importante del Giorno della Memoria. Per questo ogni anno il ministero dell’Istruzione indice, in collaborazione con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, il concorso “I giovani ricordano la Shoah”, al quale partecipano circa quindicimila ragazzi l’anno, quindi più di 150mila ad oggi.
In questi anni abbiamo ripetutamente visto rialzare la testa del mostro, vuoi del revisionismo, vuoi dell’antisemitismo, vuoi del nazismo mascherato anche sotto le bandiere di stati e nazioni che ancora oggi ripropongono slogan criminali verso gli ebrei in tutto il mondo. Il nostro compito oggi è molto importante, i testimoni dell’orrore ci stano lasciando; è compito nostro, di noi ebrei, di noi superstiti, o figli di superstiti, di noi europei democratici ed antifascisti non permettere il riemergere dell’odio con particolare attenzione anche alle forme che oggi possono apparire le più innocue. Il nostro rabbino dice che ogni giorno dovrebbe essere il Giorno della Memoria, come per l’educazione dei figli ogni giorno, ogni occasione è buona per educare ed insegnare. Il messaggio per il futuro che scaturisce da tale dramma è che la Shoà dovrebbe essere la guida alla costruzione del nostro avvenire. Primo Levi, ha scritto in una delle sue opere più memorabili: “Se capire è impossibile, conoscere è necessario”. Lo studio di ciò che è stato, il favorire un approccio culturale attivo da parte dei giovani, che vivono per fortuna in un’epoca storica in cui il rispetto per la diversità, per la dignità dei singoli e per i diritti umani sono considerati ormai patrimonio comune, è molto importante. Quest’anno molte manifestazioni in Italia sono incentrate proprio sul coraggio di ribellarsi a ordini negativi, a imposizioni ingiuste. Ricorre infatti il settantesimo anniversario della rivolta nel ghetto di Varsavia, che vide gli ebrei guidati da Mordechai Anilevich ribellarsi contro l’oppressione nazista: una ribellione disperata ed orgogliosa, contro un nemico enormemente più forte, che stava tentando di cancellare dall’Europa una delle culture in essa più radicate. Quest’anno la proposta del Museo Ebraico di Bologna è di grande interesse, incentrata su “I Giusti tra le nazioni. I non ebrei che salvarono gli ebrei in Emilia Romagna, 1943-1945”, cinquantadue persone che misero a rischio la vita propria e dei propri cari per salvare quella di ebrei perseguitati. L’Emilia Romagna è una regione particolarmente sensibile al tema, vista anche la grande partecipazione che in questo territorio si ebbe alla Resistenza: e quest’anno il nostro pensiero va in particolare a coloro i quali ebbero il coraggio, la coscienza e la forza di ribellarsi. I Giusti tra le Nazioni, i partigiani, i ribelli dei ghetti e anche dei campi di concentramento e di sterminio sono persone che con il loro coraggio ci hanno trasmesso il valore morale del non accettare ciò che è profondamente ingiusto.
Per questo ringrazio tutti voi per essere qui oggi: con la vostra presenza, testimoniate che la Memoria di quanto è avvenuto solo pochi decenni fa è ancora viva.

Qui Venezia - Mondo giuridico e persecuzioni
In occasione della tredicesima edizione del Giorno della Memoria l’Ateneo Veneto propone alcuni appuntamenti di approfondimento per ricordare e onorare la memoria delle vittime della Shoah e delle persecuzioni razziste. Il primo ieri sera con la presentazione del libro di Giovanni Acerbi “Le leggi antiebraiche e razziali italiane e il ceto dei giuristi”  a cui sono intervenuti gli avvocati Paolo Gnignati, Adriano Vanzetti  e Renato Alberini, coordinati dal giornalista Paolo Navarro Dina e introdotti dal vicepresidente dell’Ateneo Veneto, Silvio Chiari alla presenza dell’autore. Numerosi sono stati gli studi e i contributi dedicati alla normativa degli anni 1938-1945, ma il libro di Acerbi si propone di analizzare, in particolare le 'leggi della vergogna' che, muovendo dalla negazione radicale di quelle regole basilari e punto di partenza della legislazione di ogni paese civile, hanno scosso le fondamenta dell'ordinamento giuridico italiano dell'epoca. Leggi al servizio dello Stato, proposte e scritte da giuristi di regime, disponibili a tradurre in un linguaggio tecnico le direttive del partito.
“Il tema del Giorno della memoria, che affrontiamo in questi giorni, è il tema della scelta - afferma l’avvocato Paolo Gnignati - poiché in questa giornata siamo spinti a ricordare non solo le vittime, ma chi con la propria scelta si oppose. Ai giuristi in particolare l’atrocità intrinseca della normativa in materia di razza doveva risultare immediata ed evidente. Una legge che assume i connotati di torto legalizzato se messa a confronto con la legge n.211 del 20 luglio 2000, istitutiva del Giorno della Memoria, che appare come una forma di contrappasso normativo tanto diversi sono i valori proposti”.        
Il libro di acerbi ci mostra come l’introduzione delle leggi razziali presenti dal punto di vista tecnico un momento di rottura definitiva con i principi di legalità che il ceto dei giuristi, sebbene anche solo da un punto di vista formale, aveva cercato di coltivare anche nel periodo fascista. D’altra parte l’introduzione a livello regolamentare e la sua completa applicazione venne promossa dalla stessa operosità, in negativo, di molti giuristi, che contribuirono, a volte, all’inasprimento delle condizioni oltre tali normative.
I motivi di questo atteggiamento sono identificabili certo nella corrispondenza con un’ideologia di regime, ma anche nell’opportunismo, visto che con l’applicazione di tali norme si sarebbero liberate posizioni lavorative e cattedre universitarie di rilievo, assegnate in precedenza ad avvocati e professori appartenenti alla “razza” ebraica.
Una parte della legislazione razziale fu introdotta attraverso atti amministrativi, che non avrebbero potuto essere introdotti se non con una legge ordinaria com’era a quei tempo lo statuto albertino: norme come il divieto di villeggiatura, di possedere apparecchi radio, di accesso pubblici archivi e biblioteche, che incidevano nella vita quotidiana e nell’intimo di ogni discriminato.
“Lo statuto albertino, considerata una forma di costituzione flessibile, – spiega l’Avvocato Adriano Vanzetti – era, sì frutto dei valori di libertà e uguaglianza rivendicati durante i moti del ’48, ma era pur sempre una legge ordinaria e come tale poteva essere modificata da un’altra legge ordinaria di pari livello”. Oggi, la costituzione italiana è invece definita rigida, una legge ordinaria se in contrasto con una norma  di rango costituzionale che va ad incidere sui principi fondamentali della prima parte della costituzione, può essere disapplicata dal magistrato o sollevata la questione di costituzionalità da parte dell’avvocato che deve applicarla. Se ritenuta poi infondata può essere rimessa la questione alla corte costituzionale che dovrà decidere se quella norma è in conflitto con i principi costituzionali.
Con la legge del 29 giugno 1939 agli ebrei venne vietato l’esercizio libero delle professioni: giornalista, medico-chirurgo, avvocato, procuratore, patrocinatore legale e molte altre. Ad eccezione dei giornalisti, tutti i professionisti, avvocati compresi, dovevano essere iscritti ad elenchi speciali ed esercitare la loro professione solo per soggetti appartenenti alla razza ebraica, rifiutando qualsiasi collaborazione a livello professionale tra ebrei e non ebrei. Norme che scossero violentemente la professione forense in Italia dove erano presenti 554 avvocati ebrei iscritti agli albi, su un numero totale estremamente ridotto rispetto a oggi.
L’atteggiamento degli italiani di fronte  a tali provvedimenti fu caratterizzato da una profonda indifferenza, la sommaria conoscenza odierna delle leggi razziali rientra in un processo di rimozione collettiva della memoria, di destrutturazione del ricordo di un passato recente. Un errore è ritenere le leggi razziali un terribile episodio di smarrimento della ragione da parte di una casta limitata e ridotta di gerarchi giunti alla fine della loro ventennale esperienza dittatoriale. Avvenimenti storici da ritenere estranei alle abitudini nostrane in linea con il falso mito del bravo italiano e del cattivo tedesco. Il razzismo e l’intolleranza, invece, naquero e crebbero attraverso atti e gesti quotidiani ai quali i più si rassegnarono.
Sulla questione del bravo italiano è intervenuto anche l’avvocato Renato Alberini, scopertosi figlio di madre ebrea solo dopo la guerra, che non giustificando assolutamente il comportamento di chi volontariamente decise di collaborare con il fascismo, ha sottolineato come si vivesse in una dittatura che si era profondamente radicata e che aveva avuto una presa fortissima sull’opinione pubblica, spesso ignara di ciò che stava succedendo: “Si poteva pretendere dall’uomo comune – si chiede Alberini – di rinunciare alla propria vita in favore di una minoranza della popolazione che fino al giorno prima era parte integrante della società?”. Eppure, ha continuato Alberini, ci furono persone che si opposero, come Mario Rotondi, grande liberale, direttore de “La rivista di diritto privato” dove in una recensione del 1944, parlando delle leggi razziali, affermò che fossero una legislatura che disonorava profondamente la professione

Michael Calimani

pilpul
Ticketless - Il ponte sette luci
La foto qui accanto non spaventa soltanto il normale viaggiatore in treno. L’ha scattata Aldo Pavia e l’ho ritrovata in un bel libro letto in questi giorni, sulla biografia di Pino Levi Cavaglione. Lo hanno scritto Lidia Maggioli e Antonio Mazzoni (Edizioni Metauro, pref. di Pupa Garribba). Il libro prende il titolo dal ponte situato lungo la linea Roma-Formia (“Il ponte sette luci”), fatto saltare dai partigiani nella notte fra il 20 e il 21 dicembre 1944. L’attentato produsse più di 400 vittime. A questo episodio si è ispirato Nanni Loy per un film di successo, “Un giorno da leoni” (1961). Ho letto il libro perché la Resistenza ebraica è un tema che mi appassiona, ma anche per ragioni private. Da tempo cercavo notizie su questo coraggioso personaggio che porta (quasi) il mio cognome. Abbiamo antenati comuni nella Acqui ebraica dell’Ottocento. I miei antenati, rimasti nel Piemonte infranciosato, conservarono, la grafia antica avignonese (les melons de Cavaillon…). Gli antenati di Pino scendendo a Genova aggiunsero una –e per italianizzarsi meglio. Fra questi Emma Cavaglione, la mamma di Pino, morta con il marito ad Auschwitz. La prima cosa da dire è che la scelta di Pino è fra quei casi, unici, ma non rari, di giovani che scelsero di diventare partigiani in conseguenza della deportazione dei genitori. Si scopre poi da questo libro che il diario di Pino, “Guerriglia nei castelli romani”, fu nel 1945 inserito da Pavese (il suo giudizio lusinghiero è riprodotto qui dai due autori) nel catalogo Einaudi che due anni dopo rifiuterà “Se questo è un uomo”. Come Primo Levi, anche Pino Levi pose fine in modo drammatico alla sua vita, suicidandosi nel 1971. Le righe che scrisse, poco prima di morire, per l’ultima edizione del diario (Il melangolo), fanno venire i brividi alla schiena. Mi sono sempre molto interrogato, in questi anni, sul tema della violenza e ho criticato coloro che, parlando di Resistenza, sono soliti distinguere una violenza buona e una violenza cattiva. La violenza è violenza e basta. In guerra gli individui si trasformano, quale che sia la parte cui appartengono. Pino Levi Cavaglione fu per tutta la vita segnato dall’episodio del Ponte sette luci: “Io ho lottato perché sentivo di non avere più riparo nel passato, né garanzia né impegni; perché volevo vendicare mia madre e mio padre e le innumerevoli vittime dei tedeschi e dei fascisti. Se gli italiani non avessero provato un brivido di sdegno alle notizie delle uccisioni di massa (…) non vi sarebbe stata quella rottura del normale equilibrio fra il pensiero e l’azione dalla quale fermentò l’iniziativa omicida senza remissione e senza scampo, indispensabile per il combattimento. Ma oggi tutto è avvolto nelle nebbie del passato. Io stesso, che non avevo mai sparato prima e non ho più sparato dopo il 1944 ad alcun essere vivente, io stesso considero il Pino di allora un uomo diverso, e a me ormai del tutto estraneo. La mia speranza e l’impegno sono oggi rivolti a far sì che l’odio dell’uomo verso l’uomo scompaia per sempre”.

Alberto Cavaglion

Funerali
Francesco LucreziNon tutti, si sa, vivono bene la vecchiaia. Chi, in particolare, ha avuto una giovinezza intensa e avventurosa, non si rassegna a passare le giornate ai giardinetti o a portare a spasso il cane, e si ostina a rivivere l’eroico passato, rendendosi, talvolta, un po’ tedioso e ripetitivo agli occhi di familiari e conoscenti (“mamma, ma il nonno quella storia me l’ha già raccontata tante volte, forse si è un po’ rimbambito?” “ma che dici tesoro, ti vuole tanto bene…”). Sono riflessioni che mi sono venute alla mente nel leggere la malinconica cronaca dei funerali del brigatista Prospero Gallinari, con la pittoresca partecipazione di alcuni suoi anziani compagni d’armi, ritratti tutti insieme, nonostante gli acciacchi dell’età, a cantare l’Internazionale col pugno chiuso.
Qualcuno ha pensato di poggiare sul feretro un qualche simbolo del glorioso passato. Si è cercata, così, qualche pistola o qualche mitra, ma non se ne trovavano più. L’idea di un’arma giocattolo è stata scartata come poco dignitosa. Uno ha portato una bandiera con la stella a cinque punte, ma si è obiettato che appariva troppo commovente, a molti spuntavano le lacrime. Finché si è trovata, in un cassetto, una vecchia bandiera palestinese, un po’ lacera, e questo ha messo tutti d’accordo, cosicché il carceriere di Aldo Moro ha compiuto l’ultimo viaggio avvolto dai colori della Palestina. Poveri brigatisti. Dati i problemi dell’età, da molti anni non leggono più i giornali. Ai loro tempi, la bandiera palestinese era simbolo di fiero antagonismo, di lotta al sistema, e chi la sventolava incuteva terrore ai nemici borghesi. Nessuno ha spiegato loro che, in questi anni, quella bandiera è diventata una sorta di amuleto portafortuna, gioiosamente esibita a destra, al centro e a sinistra, da chierichetti e finanzieri, suore e boy-scout, maestre d’asilo e brigadieri. E’ stato l’esecutivo del compassato Senatore Monti, dalla linea non esattamente brigatista, a votare a favore del riconoscimento dello Stato di Palestina da parte delle Nazioni Unite.
Poveri brigatisti. Un tempo facevano tremare, riempivano i telegiornali, provavano l’ebbrezza di sparare alla schiena a poliziotti e magistrati. E sono finiti compagni di lotta del governo dei Professori e dei banchieri.

Francesco Lucrezi, storico

Il kibbutz e il futuro
“Una cooperativa, senza sfruttatori e senza sfruttati. Una comune» L'iscrizione sulla pietra e il patto che suggellava non sono riusciti a celebrare il centenario. In un articolo del 18 gennaio scorso, Davide Frattini descrive con tristezza la fine di un’esperienza esclusivamente israeliana e lo fa con una tale empatia e con una tale sicurezza che decine di amici e conoscenti che hanno visitato Israele e hanno avuto la fortuna di trascorrere persino qualche ora in un kibbuz, mi hanno scritto allarmati e preoccupati. Sasa, il mio kibbuz in Galilea, è un po’ più giovane di Degania: il 14 Gennaio ha compiuto solo 64 anni ma la festa di compleanno la celebreremo fra una settimana e ci saranno, secondo la nostra ben radicata tradizione, canti ebraici e americani (per dare onore ai nostri primi pionieri di Chicago, Milwaukee, New York e dal Canada), brani musicali eseguiti dai ragazzi del Liceo del Kibbuz, dialoghi tratti dall’archivio sulle storie e le avventure dei primi anni e naturalmente una cena sontuosa a base di manicaretti da tutto il mondo cucinati dalle famiglie della comunità secondo la rispettiva provenienza.
Poi la sera si aprirà il Moadon, punto di incontro dei chaverim - i membri del kibbuz e ci saranno i turni alla sala da pranzo, alla mungitura e ai pascoli e molti di questi turni saranno eseguiti anche da studenti che ora vivono a Tel Aviv, a Gerusalemme o a Beer Sheva, da professori che insegnano in qualche università o college in Israele, dal capo della fabbrica e dal segretario del Kibbuz (che è una sorta di sindaco). Questo succede a Sasa, a Bar Am e a Iron, a pochi chilometri da qui, fondati anch’essi nel ’49 che contano circa 200 membri votanti all’assemblea e altri 250-300 persone tra bambini, studenti e ragazzi di leva ma anche a Mishmar HaEmek, un kibbuz vicino a Haifa, che fu fondato nel 1922 da ragazzi del Movimento Hashomer Hazair della Galizia e conta oggi 1170 persone.
E’ vero, molti kibbutzim sono stati privatizzati, sono stati sballottati e travolti da crisi idealistiche e problemi economici, ma da qui a dire che il kibbuz è finito... Sono 80 i kibbutzim che ancora sono completamente comunitari. Frattini riporta una frase di Yossi Sarid: “Non si sono mai più ripresi, malgrado il loro contributo incomparabile alla fondazione e alla difesa del Paese».
Come non si sono mai più ripresi?
Dieci anni fa Sasa era arrivato allo stremo delle forze: le 3000 tonnellate di mele che producevamo, coglievamo e iscatolavamo ogni anno, il latte, tra i migliori di Israele, il cotone e gli agrumi non bastavano per mantenere 80 famiglie. Assemblee su assemblee. 170 milioni di dollari di debiti verso le banche. Pensioni dei membri annullate, ma tutti i giorni ci si incontrava alla sala comune per scambiarsi le idee, si continuava a lavorare di lena. Ogni festa e ricorrenza, perlomeno una al mese (noi ebrei siamo stati premiati dal Signore con tante feste da riguardare, forse per compensare tutte le vicissitudini che sconvolgono a volte le nostre vite e per darci la voglia di andare avanti!!!) venivano celebrate con spettacoli, canti, danze, organizzati dai membri del kibbuz di tutte le età. Non ci siamo dati per vinti.
Siamo riusciti a ritirarci su dalle ceneri come l’araba fenice! Nel giro di pochi anni le due fabbriche: Plasan di blindatura di veicoli contro il terrorismo e SasaTech di materiali di pulizia ecologici, ci hanno permesso di ricreare il futuro comune: ingrandire la sala da pranzo e attrezzarla contro i terremoti (siamo in zona sismica oltretutto), ristrutturare tutti gli spazi comuni, allargare il cerchio degli studi fino al master e al dottorato, creare un asilo sperimentale musicale, aggiungere nuovi indirizzi al Liceo Anna Frank: che ora offre ai giovani dell’Alta Galilea anche l’opportunità di una maturità in musica e teatro oltre all’artistica, tecnologica, classica, fisica e matematica.
I nostri figli vogliono provare a mettersi in gioco e scegliere il loro futuro: noi abbiamo lasciato la città, la famiglia, un posto sicuro per seguire un ideale...I giovani hanno il diritto di scoprire da soli il valore del tesoro nel quale sono nati e cresciuti. Tutto il buono e il bello che hanno respirato fin dai primi momenti di vita. Spesso seguono il compagno o la compagna che hanno conosciuto durante il servizio militare o durante gli studi e si sistemano in città. Non sempre questo tipo di vita è adatto a tutti. Anche per la mia famiglia, tanti anni fa, era incomprensibile che io lasciassi Roma, una casa dove c’era di tutto e molto di più, per andare a correre su un trattore e cogliere mele e kiwi, a fare teatro con ragazzi ebrei, arabi, disabili, disagiati, anziani e di culture diverse...
Non mi preoccupa il fatto che non c’è nessun politico che viene dalla società kibbuzzistica, alle elezioni. I kibbutzim sono l’1 per cento della società israeliana. Non abbiamo bisogno a tutti i costi di politici! Sarei piu preoccupata se non ci fossero piu’ educatori, artisti, professori, fisici, agricoltori, terapisti, ingegneri...
Tranquilli! Siamo ancora qua!
Discutiamo a tutte le assemblee, a volte riusciamo a convincere gli altri e a volte no. Ma questa è la democrazia. E finché ci saranno interrogativi, dibattiti e votazioni c’è la speranza che si possa cambiare qualcosa...e se non è in questo giro, basta aspettare!

Angelica Edna Calò Livne

notizie flash   rassegna stampa
Qui Roma - Brundibar, un'opera
per non dimenticare
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Sarà rappresentata questa sera a Roma al Teatro Nazionale alle 19 l'Opera Brundibar. L'evento è organizzato dalla Comunità ebraica di Roma in collaborazione con il Teatro dell'Opera nell'ambito delle iniziative per celebrare il Giorno della Memoria.
 

Perde terreno la destra di Benjamin Netanyahu e Avigdor Lieberman: nelle elezioni per il rinnovo della Knesset, il parlamento israeliano, la coalizione conservatrice non ottiene la maggioranza e si ferma a 60 seggi su 120.




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