“Ben
Azzay soleva dire: corri anche verso un precetto apparentemente poco
importante e rifuggi dalla trasgressione, perché un precetto trascina
un altro precetto e una trasgressione trascina un’altra trasgressione;
la ricompensa di un precetto è eseguire un altro precetto e la
punizione di una trasgressione è commettere un’altra trasgressione”.
In questa massima tratta dai Pirqè Avòt (4,2) troviamo due termini
contrapposti: Mitzvah (“precetto”) e ‘Averah (“trasgressione”). Il
Talmud (cfr. Sanhedrin 107b) ci insegna che per questo motivo il S.B.
ci ha dotato di due mani: la sinistra tiene lontane da noi le
trasgressioni e la destra avvicina a noi le Mitzvot. Sempre nello
stesso brano di Avòt la parola Mitzvah e la parola Averah compaiono
cinque volte ciascuna, come i dieci Comandamenti: cinque in una tavola
e cinque nell’altra. Nei primi cinque Comandamenti così come sono
scritti nella Torah compare il Nome di D.: sono cinque Mitzvot a Lui
particolarmente care. Gli ultimi cinque, invece, si riferiscono a
trasgressioni che mettono in serio pericolo la società, l’amicizia e la
solidarietà fra gli uomini, come non uccidere, non rubare, non
testimoniare il falso. Trasgressioni talmente gravi che D. non ha
voluto scrivere il Suo Nome fra questi cinque comandamenti. E’ per
questo che ciascuna delle due mani dispone di cinque dita: per
ricordarci dei Dieci Comandamenti in ogni momento...
I Pirqè Avòt non sono solo materia di studio per le settimane che
precedono Shavu’ot, il Dono della Torah. I nostri Maestri ci
raccomandano di ripeterli anche nel corso dell’estate, per evitare che
il clima caldo e di relax si traduca in rilassamento morale. Ma c’è
anche un’altra ragione per ciò. Dei Dieci Comandamenti esiste nella
Torah una seconda versione (Devarim 5), che si legge nella Parashat
Waetchannan durante l’estate appunto. Che cosa significa questo testo
così antico per noi oggi? Che valori ci trasmette? Esiste un perno
intorno a cui fare ruotare lo studio?
A questo proposito vorrei qui partire da una lettura ciclica degli
‘Asseret ha-Dibberòt, giustificata da una suddivisione che i nostri
Maestri danno delle Mitzvot in tre gruppi: quelle legate al pensiero
(machshavah), quelle legate all’uso della parola (dibbùr) ed infine
quelle legate all’azione (ma’asseh), che sono numericamente la
maggioranza. Ebbene, i primi due Comandamenti (Io sono, Non avrai altri
dei) sono essenzialmente di machshavah, il terzo è di dibbur (Non
pronunciare il Nome invano), dal quarto all’ottavo di ma’asseh (Osserva
Shabbat, Onora padre e madre, Non uccidere, Non commettere adulterio,
Non rubare), il nono di nuovo di dibbur (Non fare falsa testimonianza)
e il decimo torna alla machshavah (Non desiderare l’altrui proprietà).
Così leggendo tutto ruota intorno al quinto comandamento (Onora padre e
madre) e al sesto (Non uccidere). Possiamo spingerci a dire che senza
il rispetto della vita umana non ci potrebbero essere tutti gli altri
comandamenti, per il semplice fatto che la società non avrebbe un
futuro: lo stesso comandamento di onorare i genitori richiede
l’esistenza di figli! Per paradossale che sia non basta avere genitori,
occorre essere genitori. Ma che rapporto c’è fra il quinto e il sesto
comandamento? Grazie al Cielo, oggi come oggi nessuno di noi è nemmeno
lontanamente sospetto di assassinio...
La prima prescrizione di Even ha-‘Ezer, la parte dello Shulchan ‘Arukh
dedicata alle regole sul matrimonio, ci insegna (la fonte è Yevamot
62b): Chayyav adam lasset ishah kedè la’assoq be-firyah we-rivyah. U-mi
shelo ‘osseq be-firyah we-rivyah keillu shofekh damim umema’et et
ha-‘demut: “Ognuno è tenuto a sposarsi con una donna allo scopo di
dedicarsi alla procreazione. E chi non si dedica alla procreazione è
come se versasse sangue e diminuisce l’immagine Divina” che è
nell’uomo. L’accostamento così forte è basato su Bereshit 9,6-7, dove
appaiono giustapposti i tre concetti: “Colui che versa il sangue
dell’uomo avrà il suo sangue versato dall’uomo, poiché ad immagine di
D. Egli creò l’uomo. Quanto a voi, crescete e moltiplicatevi...”.
Secondo la Torah anche non dedicarsi alla procreazione è dunque una
trasgressione grave. Ogni individuo nasce ad immagine Divina e chiunque
si trovi negata la possibilità di venire al mondo di fatto diminuisce
l’immagine Divina che tutti gli esseri umani conferiscono alla nostra
specie. Ciò avvalora ulteriormente la lettura ciclica dei Dieci
Comandamenti da cui ci siamo mossi. Partendo dal centro diretti verso
la periferia, ci rendiamo a questo punto conto di come il primo
Comandamento (speculare al sesto nell’altra tavola) ci richiami
all’esistenza di D. di cui siamo l’unica immagine ammessa e di come il
decimo (speculare al quinto) esordisca con la difesa della famiglia:
“Non desiderare la donna d’altri”.
In quanto ebrei, peraltro, noi abbiamo una responsabilità ancora più
forte rispetto a tutti gli altri. Oltre a contribuire alla società
civile in generale, dobbiamo anche portare avanti il nostro popolo,
pensare alle nostre Comunità. Qual è dunque per noi ebrei l’attualità,
l’essenza del messaggio? Avere matrimoni ebraici!
Rav Alberto Moshè Somekh (Pagine Ebraiche agosto 2012)
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| Davar acher - Il mio tema di Maturità
| La
conferenza di Wannsee e la preparazione della Soluzione finale, nelle
parole di Hanna Arendt. E’ una delle tracce proposte quest’anno alle
prove dell’esame di maturità per il tema storico. Un argomento
complesso e delicato dalle implicazioni sia storiche sia filosofiche.
Ma che significato ha uno spunto di questo genere? Quanto aiuta
approfondire i meccanismi della Shoah? E in quali modi lo si può
declinare? Abbiamo girato questi interrogativi ad alcuni dei nostri
editorialisti, che in queste pagine si cimentano con la loro personale
versione del tema di Maturità: una sfida non facile che ci aiuta a
capire meglio.
Se il tema assegnato mi avesse chiesto semplicemente di parlare dello
sterminio del popolo ebraico avvenuto in Europa fra il 1939 e il 1945,
di ciò che si usa chiamare oggi Shoah, cioè catastrofe - molto più
opportunamente del falsamente teologico Olocausto com'era definito
questo evento in passato -, non avrei avuto difficoltà a farlo, nei
limiti del tempo e dello spazio di un'esercitazione scolastica come
questa. Avrei parlato delle premesse del genocidio, cioè della
millenaria campagna di intolleranza nei confronti degli ebrei guidata
dalla Chiesa, dei provvedimenti che limitarono la loro vita e la
libertà di azione in limiti sempre più angusti e miserabili, delle
stragi di massa più o meno spontanee che si scatenarono a partire dalle
crociate, della cacciata dalla Spagna e del genocidio lento
dell'Inquisizione. Avrei accennato all'accusa del sangue, e alle
persecuzioni che ne seguirono. Sarei poi passato a discutere le
trasformazioni dell'antigiudaismo antico durante l'Ottocento, con il
passaggio, da parte laica e clericale da accuse di ordine teologico a
imputazioni “scientifiche”, cioè sociologiche, economiche, politiche.
Avrei citato i Protocolli dei Savi di Sion, l'antisemitismo diffuso nel
movimento socialista, l'apprendistato di Hitler nella Vienna del
sindaco cattolico Lueger. Avrei ricordato come in Mein Kampf il
dittatore tedesco avesse già espresso diffusamente il suo programma di
sterminio, senza essere preso sul serio da nessuno, neppure dalle sue
vittime. Sarei passato infine al genocidio vero e proprio, con le Leggi
di Norimberga, poi le stragi compiute in maniera sempre più sistematica
dall'esercito tedesco nella sua avanzata a Oriente, la costruzione del
sistema dei Lager, la “volonterosa collaborazione” della popolazione
tedesca e di molte altre nazionalità, dai lituani ai polacchi agli
ucraini, i casi più rari di rifiuto collettivo di collaborare allo
sterminio (in Danimarca, Bulgaria), la posizione ambigua della Chiesa.
Mi sarei soffermato sull'eccezione dei Giusti che salvarono gli ebrei a
rischio della vita. Avrei cercato soprattutto di riflettere sulla
posizione delle vittime, sulla degradazione che subirono, sui tentativi
difficilissimi di trovare vie di fuga, sul blocco inglese al rifugio in
Eretz Israel, sulle terribili condizioni di vita (e di morte) nei
Lager, sulla geografia, la logistica e l'economia dei campi. Avrei
parlato infine della difficoltà dei sopravvissuti a reinserirsi nella
vita normale, anche dove non furono accolti da pogrom ai ritorni dai
lager, come accadde secondo modalità assai diverse in Polonia e
nell'Unione Sovietica, e di quella ancora maggiore di dare
testimonianza e di convincere l'Europa a fare i conti con un crimine
così fuori misura che non le era capitato addosso per caso, ma nasceva
dalla sua storia e dalla sua vicenda intellettuale e sociale. Avrei
concluso, se avessi potuto esporre sostanzialmente tutte queste cose,
parlando della fondazione dello Stato di Israele, non solo come rifugio
e speranza per i perseguitati, ma come sola seria garanzia che il
genocidio non si ripetesse (e non si ripeta ancora oggi, come alcuni
vorrebbero), o almeno senza una strenua e organizzata resistenza. Se il
tema fosse stato solo limitato alla clausola conclusiva e se le forze
mi avessero assistito a sufficienza, avrei dunque svolto così il mio
lavoro. Ma il dettato ministeriale è più complesso, e chiede di parlare
dello sterminio degli ebrei “prendendo spunto” dalla descrizione che
Hannah Arendt diede della conferenza di Wannsee in cui fu decisa
certamente non la “soluzione finale del problema ebraico” in sé, ma le
sue modalità operative. In quanto studente che partecipa all'esame di
maturità, e anche in quanto professore universitario di altra materia,
non sono abbastanza specialista del campo per poter dare una
bibliografia ragionata dei numerosi studi che si sono succeduti nei
cinquant'anni trascorsi dal testo della Arendt sull'organizzazione
sistematica delle stragi naziste e sul ruolo che vi ebbe la conferenza
di Wannsee. Ma non occorre essere specialisti per sapere che il lavoro
della Arendt non è l'ultima parola storiografica sull'organizzazione
del genocidio, e del resto il brano prescelto da cui dovrei “prendere
spunto” per parlare dello sterminio non aspira a scrivere un bilancio
storico dell'incontro né tantomeno un ragionamento sull'organizzazione
del genocidio, ma piuttosto riguarda i rapporti interni al gruppo dei
massimi funzionari dello sterminio in quel momento e in particolare la
promozione sociale dentro questo gruppo di un ufficiale di grado
elevato ma inferiore agli altri com'era Eichmann, di cui si colgono dei
tratti quasi caricaturali come la meraviglia nel vedere che anche i
grandi capi delle SS bevono e fumano come comuni mortali. Dietro questa
descrizione, che qualcuno potrebbe trovare irritantemente mondana, si
cela il tema arendtiano della “banalità del male”: banale sarebbe lo
svolgimento della conferenza burocratica in cui i diversi potentati del
regime nazista si accordarono sul modo di suddividersi i compiti dello
sterminio; e ancora più banale la festicciola dopo la conferenza: per
questo evidentemente Arendt ne parla. Nella sua tesi esplicitamente
polemica sul processo Eichmann, questa piccola cronaca ha senso. Ma è
questo il modo giusto, o almeno fruttuoso, di parlare della Shoah nel
suo complesso? Che funzionari e ufficiali di ogni esercito o governo
tengano incontri organizzativi prima di ogni azione complessa, è
abbastanza ovvio ed è altrettanto chiaro che in queste situazioni ci
siano dinamiche sociali e psicologiche decisamente “banali”, secondo un
formalismo dei gradi e del cameratismo particolarmente sviluppato in
ambito militare e ancor più germanico. Due immagini mi vengono in mente
a questo proposito, che purtroppo non posso riprodurre in un tema: una
ritrae il brindisi fra gli ufficiali olandesi che dovevano difendere la
cittadina bosniaca di Sebrenica e Slobodan Milosevic, al momento
dell'abbandono del campo degli olandesi che avrebbe permesso la strage
di tutti gli abitanti della cittadina; l'altra un rabbino polacco che,
immediatamente prima di essere ucciso, dice kaddish per sé e per la sua
comunità distrutta, e gli ufficiali tedeschi che lo circondano lo
guardano con disprezzo e ridacchiano di fronte alla sua evidente
povertà d'abbigliamento, sciatteria e concentrazione nel gesto
“inutile” che sta compiendo. Da sempre gli alti gradi militari
esibiscono una “distinzione” fatta di uniformi impeccabili, stivali
luccicanti, sbattere di tacchi, saluti formali con la sciabola. Possono
permetterselo, perché “dormono su letti di lana”, come dice una canzone
della prima guerra mondiale; di solito non partecipano direttamente
alla violenza della guerra, non portano armi offensive, al massimo una
pistola per autodifesa, magari dai loro stessi soldati. Tutto ciò
potrebbe naturalmente indurre a una riflessione sulla violenza e sulla
cerimonialità del potere, ma non è per nulla specifico della Shoah. Che
i capi delle SS a Wannsee si siano attenuti al cerimoniale militare,
incluso il fatto di romperlo alla fine dei lavori e di ammettere al
loro meritato riposo un inferiore diligente, non ci dice nulla sul
senso della Shoah e neppure su ciò che essi volevano, pensavano e
desideravano nell'organizzarla. Ci mostra una volta di più che il
genocidio non è stato casuale ma organizzato, e che fu fatto secondo le
consuete modalità del comando militare. Non dà però “spunto” rispetto
allo sterminio, semplicemente testimonia che esso fu condotto da
individui che tenevano alle forme militari e magari le usavano per
umiliare ulteriormente e disprezzare vittime disumanizzate anche sul
piano delle forme, orribilmente denutrite, vestite da pagliacci,
deprivate da ogni forma. Il che non significa affatto, come sembra
essere la tesi di Arendt, che i carnefici fossero “nient'altro che”
degli oscuri burocrati che eseguivano automaticamente “il loro dovere”,
stabilito da un “pazzo” come Hitler. Questa è esattamente la tesi
difensiva dei nazisti, e il fatto che la Arendt vi aderisca senza porsi
grandi problemi richiederebbe un'indagine approfondita sulla piega del
suo pensiero che l'ha portata a questa posizione e sulle ragioni della
sua popolarità. Se provassi a farlo qui, andrei fuori tema, e quindi me
ne esimo. Voglio solo notare che vi è abbondante documentazione per
dire che sotto le perfette uniforme e le cerimonie sociali degli
ufficiali di Wannsee vi erano dei nazisti a tutto tondo, il cui
antisemitismo era profondo e violento. Se in questo tema bisognasse
cercare di dare ragione del crimine più orribile che abbia conosciuto
la storia europea, si dovrebbe farlo smascherando il cerimoniale di
Wannsee e cercando di capire quanto di non banale, di estremo e
totalmente disumano avvenne in quegli anni; non le forme più o meno
“corrette” di cui si avvolse.
Ugo Volli - twitter @UgoVolli (Pagine Ebraiche agosto 2012)
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un commando di fedayn palestinesi durante le Olimpiadi apre la puntata
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Mennea, campione olimpico dell’atletica italiana e di Alfredo Pigna,
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estivo, tempo rilassato. O almeno così si spera. Nulla di
particolarmente rilevante da segnalare nello spoglio domenicale della
stampa. Come spesso capita in queste circostanze ci si può allora
dedicare con maggiore attenzione agli articoli di commento o a quelli
di taglio letterario. Così è nel caso di Marco Belpoliti che sulla
Stampa affronta il “continente Primo Levi” riflettendo sulle alterne
fortune di un autore diventato, per molti aspetti suo malgrado,
personaggio di fama internazionale(...).
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|
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delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
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