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17 novembre 2010 - 10 Kislev 5771
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Adolfo Locci, rabbino capo di Padova
Adolfo
Locci,
rabbino capo
di Padova

"..fino a quando non giungerò dal mio signore a Se‘ir” (Bereshit 33:14). Il dialogo tra Ya‘akov ed ‘Esaw, i due fratelli/popoli, è emblematico. ‘Esaw chiede una riunificazione che Ya‘akov, al momento, non sente di accettare e che vuole rimandare ad altri tempi. Ya‘kov, con molta delicatezza e rispetto, afferma che è lui il problema; ha un andatura più lenta, è “zoppicante” e non vuole accelerare il passo con il rischio di perdere per strada nessun componente della sua famiglia. Tuttavia, Ya‘akov promette che giungerà il momento in cui “arriverò dal mio signore a Se‘ir”, ma non adesso. Per capire il senso delle parole di Ya‘akov, ci aiuta il profeta ‘Ovadyà, il cui unico capitolo biblico costituisce la haftarà di questa settimana (Cap- 1:21: “saliranno i liberatori sul monte di Sion per fare giustizia dei figli di ‘Esaw e al Signore apparterrà il regno”). L’espressione di Ya‘akov “arriverò dal mio signore a Se‘ir”, non significa presentarsi all’incontro con il fratello (che è principe di Se’ir), ma comparire a giudizio davanti al Signore che - in un futuro a venire - giudicherà tutti i popoli. Quello, che è tempo di gheullà-redenzione, sarà il momento giusto per la riunificazione tra popoli/fratelli. Nel frattempo, grazie alla Torah e alle mitzwoth, possiamo proteggerci dagli “abbracci” e dai “baci” di ‘Esaw, che rappresentano l’ostacolo più grande al “nostro percorso” per arrivare a quel giorno...  

Maurizio
Molinari,
giornalista


Maurizio Molinari
La sinagoga di Bombay vista da fuori assomiglia a un fortino: una dozzina di soldati indiani, con tanto di mezzi blindati, la proteggono giovandosi di una postazione di sacchetti di sabbia e per entrarvi bisogna passare attraverso un metal detector. Ma dentro è una sorta di gioiello culturale: l'architettura è la stessa della sinagoga di Baghdad e ricorda molto quella di Gerba; i libri di preghiera "Baghdadim" risalgono al periodo in cui i commerci si svolgevano lungo la rotta Bassora-Bombay-Hong Kong; chi la frequenta sono ingenieri hi-tech protagonisti delle economie emergenti, ragazzi indiani che parlano ebraico, giovani Chabad e commercianti di ogni immaginabile bene. La cui vivacità collettiva è tale da far dimenticare che vivono blindati.

davar
Formazione ebraica: docenti e studiosi a confronto
all'apertura dell'anno accademico del Corso di laurea
pubblicoIl Corso di laurea in studi ebraici del Collegio rabbinico italiano deve inserirsi nel solco delle tradizione culturale dell'ebraismo italiano fornendo una formazione ebraica a chi non vuole direttamente intraprendere la carriera rabbinica. Lo ha affermato il Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Sandro Di Castro, portando i saluti del Presidente UCEI Renzo Gattegna, alla cerimonia di apertura dell'anno accademico del Corso. Di Castro ha ricordato le figure dei fondatori della prestigiosa Rassegna mensile di Israel, Dante Lattes e Alfonso Pacifici, il primo con una formazione rabbinica e filologica, il secondo invece animato dal desiderio di “dare un’anima alla semplice osservanza dei precetti all’ebraismo italiano”, proprio perché in occasione dell’apertura dell’anno accademico è stata presentata ieri al Centro bibliografico dell’Unione la nuova raccolta degli indici della Rassegna mensile di Israel a cura di Micaela Vitale e Silvia Rebuzzi che raccoglie in modo sistematico 80 anni di articoli apparsi sulla rivista.
Molti gli interventi che si sono succeduti per raccontare questo nuovo lavoro che permette agli studiosi una fruizione semplice e agevole degli articoli della rivista anche in via telematica.
Il sottosegretario all'Istruzione senatore Guido Viceconte, intervenuto in rappresentanza del ministro Mariastella Gelmini, ha sottolineato l’alto valore accademico del Corso di laurea nell’ottica di uno spirito di collaborazione con le istituzioni universitarie e con la società civile, evidenziando il contributo della Rassegna Mensile alla conoscenza dell’ebraismo nella società italiana. Viceconte ha riconosciuto nella Rassegna uno strumento imprescindibile per gli studiosi che vogliano affrontare la realtà ebraica italiana ed ha ricordato, fra le nuove iniziative intraprese in collaborazione con il Ministero il progetto di traduzione del talmud in italiano.

relatoriIl rabbino capo di Roma rav Riccardo di Segni ha invece ripercorso la storia del Collegio rabbinico italiano ricordandone la nascita nella Padova asburgica del 1829 e il successivo spostamento a Roma dopo la breve parentesi fiorentina. Il rav ha rimarcato la continua attenzione e promozione delle Istituzioni per l’Istituto, che è nato per formare rabbini ma che ora copre una gamma più ampia di offerta culturale.
Il presidente della Fondazione per i beni culturali ebraici in Italia Onlus Giuseppe Fuà ha promosso la redazione degli indici ha ricordato come la Rassegna, nata nel 25 ,abbia via via affrontato i problemi fondamentali dell’ebraismo italiano sia sul piano civile che religioso. “Ora” ha detto Fuà “ gli indici cercano di raccogliere in modo sistematico gli articoli della rivista e son stati realizzati in modo da permetterne anche la fruizione telematica sul sito dell’Unione”.
Il professor Giacomo Saban, attuale direttore della Rassegna Mensile di Israel, ha voluto sottolineare l’internazionalità della Rassegna che nel corso degli anni si è occupata di ogni aspetto dell’ebraismo mondiale raccontando della richiesta della istituzione JSTOR di inserire il database della rivista nel proprio sito rendendo disponibili gli articoli a ricercatori di tutto il mondo.
In conclusione, dopo l’intervento del professor Campelli, direttore del Corso di laurea che ha salutato docenti e studenti del Corso stesso, la storica Anna Foa ha riproposto le linee guida del saggio scritto per introdurre gli indici della Rassegna, indicando nella Rassegna stessa una via italiana all’emancipazione ebraica e allo studio delle proprie radici culturali.

Daniele Ascarelli

Foa: "Rassegna mensile d'Israel, il patrimonio degli Indici"
Riportiamo di seguito il testo integrale del discorso della professoressa Anna Foa alla presentazione degli Indici della Rassegna mensile d'Israel:

Anna Foa"Questo incontro è volto a presentare gli indici complessivi, dal 1925 al 2004, ottant’anni dunque, della Rassegna Mensile di Israel. Come ha messo in luce il professor Saban nella sua presentazione e come hanno sottolineato le due curatrici degli indici, Micaela Vitale e Silvia Rebuzzi, nel loro saggio di presentazione del lavoro, si è trattato di un risultato importante e difficile da realizzare, che ha richiesto da parte loro  un impegno pluriennale e una attenta rielaborazione dei criteri bibliografici e culturali di costruzione degli indici, che apre la strada non soltanto ad una ricostruzione del percorso della rivista, ma anche ad una ricostruzione complessiva dell’intera storia dell’ebraismo italiano di questo periodo. Vorrei segnalare, in particolare, il difficile lavoro compiuto dalle autrici per mettere a punto l’indice dei soggetti, in cui, come esse scrivono, “è stato necessario trovare delle nuove definizioni di argomenti che rispondessero alle strade di ricerca intraprese dagli studiosi nei diversi campi dell’indagine storica e scientifica”. La scelta, attuata dalla Giunta dell’Unione, di mettere online gli indici, contribuisce a renderli uno strumento accessibile non solo agli studiosi ma ad un pubblico più vasto, in fondo lo stesso pubblico cui è stata rivolta la Rassegna nel corso dei suoi ottant’anni di storia.
E’ nel 1925 che Dante Lattes e Alfonso Pacifici - che già dieci anni prima, nel 1916, avevano dato vita al settimanale  Israel - fondano La Rassegna Mensile di Israel. Pubblicato inizialmente solo in maniera saltuaria, diventerà un regolare mensile a partire dal 1930, quando direttore ne rimarrà  il solo Dante Lattes.
Lattes e  Pacifici sono due personaggi chiave dell’ebraismo italiano: toscani entrambi, l’uno allievo di Elia Benamozegh a Livorno, l’altro seguace di Samuel Margulies a Firenze, ambedue sionisti di quello speciale sionismo religioso che caratterizza l’esperienza italiana, essi  concepiscono la loro attività giornalistica come una missione volta a riaccendere lo spirito dell’assimilato ebraismo italiano, a vivificarlo e renderlo pieno e integrale.
Se l’Israel, in quanto  giornale diretto a tutto il mondo ebraico italiano, aveva un carattere di grande accessibilità,  diverso era il progetto della Rassegna, rivolta ad un pubblico ebraico colto senza per questo essere una rivista accademica, “moderno e efficace strumento di diffusione culturale presso i colti ebrei ebraicamente incolti”. Essa aveva come obiettivo di accogliere tutte le voci che sapessero “illuminare il pensiero e la storia di Israele e ... portare un contributo alla conoscenza delle sue vicende e delle sue espressioni culturali”. Una formula originale, a cui la rivista ha saputo mantenersi sostanzialmente fedele fino ad oggi, nel mutare delle circostanze storiche, nell’avvicendarsi dei suoi direttori e del pubblico stesso a cui si rivolgeva. Una formula, inoltre, che fa della Rassegna una rivista  rivolta essenzialmente al mondo ebraico, e non all’esterno. Anche questa caratteristica resterà dominante nella rivista nelle sue fasi successive, attraverso il volgere degli anni e il mutare delle problematiche: la Rassegna vuole insegnare l’ebraismo agli ebrei, non trasmetterne la conoscenza al mondo esterno, se non marginalmente e in via del tutto secondaria.  
Soppressa dal fascismo nell’ottobre 1938, come tutta la stampa ebraica italiana,  essa riprese le pubblicazioni, sotto il patronato diretto dell’Unione delle Comunità Israelitiche,  dopo la fine della guerra, nell’aprile 1948, quando Dante Lattes tornerà da Israele a dirigerla “nel nome dei martiri, dei pensatori e dei pionieri d’Israele e rendendo grazie al Signore per averci concesso di salutare l’alba del Risorgimento Ebraico”.  Ne resterà direttore fino al 1965, l’anno della sua morte. Nel riprendere le pubblicazioni, Lattes dichiarava il suo intento:  richiamare gli ebrei italiani, in particolare quelli colti,  alla loro tradizione culturale specificamente ebraica: “gli ebrei colti, cioè quella stessa categoria di persone la cui raffinata intellettualità si disperde oggi completamente fuori dal campo ebraico, o che, sia pur rimanendo in quest’ambito, si esaurisce in beghe politiche che sono esiziali perché nulla o quasi nulla hanno a che fare con l’ebraismo quale può essere vissuto e praticato oggi nel mondo fuori di Erez Israel”. 
 Tuttora in vita, essa ha quindi una lunga storia di oltre ottant’anni, la più lunga nella stampa ebraica italiana, tale da consentirci di afferrare quella del mondo ebraico italiano sul lungo periodo, attraverso il fascismo, le leggi razziste, la guerra, la Shoah, la fondazione dello Stato d’Israele, e via via le vicende principali di questa seconda metà del Novecento.  Sfogliarne gli indici vuol dire quindi cogliere nel tempo l’immagine di come il mondo ebraico italiano percepiva i suoi problemi, la sua identità, la sua collocazione nella grande storia del mondo, farne emergere le trasformazioni, i cambiamenti, le persistenze. Fare, in sostanza, la storia del mondo ebraico italiano nel Novecento. Il quadro che ne emerge ci permette di vedere la trasformazione dell’identità ebraica nel secondo dopoguerra, una trasformazione profonda che la Rassegna  Mensile di Israel non manca di ispirare e che, al tempo stesso, riflette. “ Una sfida culturale”, per usare le parole di Amos Luzzatto, che investe gli ebrei italiani a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, trasformando il loro impegno comunitario, la loro modalità di appartenenza religiosa, la loro collocazione rispetto al mondo ebraico e ad Israele.
 La stampa periodica ebraica in Italia nasce con l’emancipazione, sull’onda del raggiungimento della parità giuridica, come sottolineava Attilio Milano in un suo saggio del 1937, pubblicato nel 1938, alle soglie della chiusura della rivista. Una nascita tardiva rispetto al mondo ebraico dell’Europa occidentale, in particolare alla Germania dei primi decenni dell’Ottocento, un  ritardo che Milano attribuisce al più forte legame con la sinagoga e la vita religiosa, tipico dell’Italia ebraica nell’età  dei ghetti.  La stampa, cioè, sarebbe dopo l’emancipazione divenuta un sostituto della sinagoga, che gli ebrei, stufi della chiusura del ghetto, “disprezzavano” e fin “rinnegavano”, ora che essa non svolgeva più la sua funzione storica di dar loro gli strumenti per resistere e durare nel tempo. “E’ appunto in mezzo al fremito della nuova vita ebraica emancipata o in via di rapida emancipazione, in mezzo agli atteggiamenti di pensiero, più diversi e spesso più incomposti, degli ebrei italiani circa l’essenza del loro Ebraismo, che si impose la necessità di una parola, che dall’ampia palestra di un periodico, illustrasse il pensiero e la vita di Israele, facendone sentire la persistente, sempre feconda attualità”, scriveva. Trasmettere in un mondo ebraico in trasformazione, la conoscenza dell’ebraismo, del suo pensiero e della sua “essenza”, è quindi l’obiettivo del fiorire della stampa ebraica intorno alla metà circa del secolo XIX, nel contesto del processo di emancipazione.
 Sono gli anni in cui in Germania, dove come in Italia l’emancipazione ebraica accompagnava il processo di unificazione nazionale, si stava realizzando un processo di trasformazione identitaria radicale, che coinvolgeva in profondità il mondo ebraico, impegnato a rinnovare la propria immagine sia di fronte al mondo sia di fronte a se stesso. Non un’“assimilazione”,  concetto che implica la perdita dell’identità e il rischio di essere risucchiati, sotto tutti i punti di vista, nel mondo esterno, perdendo le proprie caratteristiche identitarie, ma una trasformazione. Che nel caso tedesco non si possa parlare di perdita identitaria, bensì di una radicale trasformazione dell’identità, è cosa su cui la recente storiografia sostanzialmente concorda. Anche per l’Italia è a mio avviso fuorviante usare il termine “assimilazione” a definire l’integrazione degli ebrei italiani nella società esterna. Ma in Italia, dove la tradizione religiosa si colloca da sempre in funzione di mediazione con il mondo esterno, il processo, più che una ridefinizione identitaria, implica la volontà di mantenere saldi i fili di una tradizione che non comportava e non aveva comportato  di per sé  nessuna radicale chiusura al nuovo. La funzione della stampa periodica, volta  a far “sentire la persistente attualità” dell’ebraismo, a farne conoscere la vita, non è quindi volta, come in Germania, a rifondare l’identità, ma a riconoscerla e trasmetterla, anche nella trasformazione. Una funzione assai meno radicale, potremmo dire.  Perchè essa fosse  radicale, mancavano gli strumenti che avevano reso tale quella tedesca.  Il primo era il  mutamento nella percezione della storia, e quindi del tempo, indotto in Germania dalla Wissenschaft des Judentums. Tra quanti, negli anni cruciali del XIX secolo, accolgono il criterio storico adottando un ottica storicistica di trasformazione, e quanti invece si oppongono alla storia, considerandola un elemento eversivo della religiosità tradizionale, l’immissione del tempo e della contestualizzazione storica nella Legge  e nel pensiero ebraico,  l’Italia sceglie piuttosto, in questi primi decenni a cavallo dell’emancipazione, la seconda strada, sottolineando l’aspetto morale dell’ebraismo, non il suo essere nella storia. Mentre la Germania brulica di riviste di ogni tipo, centri culturali, conferenze, dibattiti, che attraggono un vasto pubblico e che contribuiscono alla creazione di una vera e propria opinione pubblica colta, interessata alla sua storia e pronta ad identificarsi non con il testo o con il rito, ma con il suo passato, l’Italia mantiene nei confronti della storia e dello storicismo crescente in Europa e nella società italiana non ebraica una sorta di diffidenza, dove confluiscono tanto le ragioni dei rabbini che quelle dei filosofi. Le ragioni di questa resistenza al paradigma storico ci riportano alla mancanza in Italia di una riforma, data la vicinanza esistente tra storia e pensiero riformato, e all’entusiasmo con cui i rabbini riformati, a partire dallo stesso Abraham Geiger, adottano il paradigma storico. La funzione della stampa italiana, dunque, lungi dall’essere come in Germania volta a cogliere le radici del mutamento, a fornire un paradigma identitario nuovo agli ebrei, rinvenuto appunto nella dimensione storica, sarà piuttosto una funzione difensiva, di salvaguardia non tanto della tradizione in se stessa quanto di un suo misurato incontro con la trasformazione.
Attribuendo alla stampa ebraica italiana una funzione meno eversiva che a quella tedesca, non dobbiamo, però, dimenticare il carattere assai particolare dell’incontro del mondo ebraico italiano con il mondo esterno: un incontro tra idealità in qualche modo affini, un’assimilazione, per dirla con Francesca Sofia, “ad un sistema di valori piuttosto che ad un popolo, ad una nazione fisicamente costituita, ad una lingua”. Un incontro, in sostanza, con idealità che non entravano in contrasto il forte impegno etico del mondo ebraico ottocentesco, che non imponevano scelte tra visioni del mondo contrastanti. A differenza che altrove, non sono gli anni successivi all’emancipazione a porre agli ebrei italiani  il problema della ridefinizione dell’ebraismo, ma anni molto più tardi, quelli a partire dall’inizio del secolo e in particolare a partire dal periodo che segue la prima guerra mondiale, quando il nazionalismo italiano si trasforma e si allinea a quello europeo.
Sono gli anni della diffusione, sia pur com’è noto assai minoritaria ed élitaria nel mondo ebraico, del movimento sionista in Italia. Ed è soprattutto intorno al diffondersi del movimento sionista, e non, come in Germania intorno alla riflessione sulla propria storia, che si realizza in Italia, dopo la prima fase ottocentesca,  una forte crescita della stampa ebraica, il nascere di riviste, associazioni culturali, conferenze, dibattiti. Ma, se in Italia il sionismo si sostituisce alla storia come catalizzatore delle trasformazioni identitarie, questo vuol dire, almeno in quel primo contesto italiano degli anni a cavallo della prima guerra mondiale, che questa riflessione identitaria è innanzitutto proiettata non verso la ricostruzione di uno spessore nel passato (sono ebreo perché ho una storia di ebreo) bensì verso il futuro, verso il recupero di un ebraismo rinnovato ma anche vivificato nel suo spirito (sono ebreo perché voglio riportare gli ebrei in Eretz Israel, ebrei rinnovati e capaci di ricostruire lo Stato attraverso la ricostruzione di se stessi). E, ancora, vuol dire che questa riflessione nasce non dall’emancipazione, e nemmeno dal tentativo di mantenere salda l’identità nelle lusinghe dell’emancipazione, ma dalla critica più radicale ad essa, quella sionista dell’assimilazione. E’ questa critica che si salda alle precedenti suggestioni ottocentesche sul mantenimento dell’identità, creando un paradigma forte e destinato a rafforzarsi nel tempo, quello di una contrapposizione radicale tra mantenimento dell’identità e assimilazione. Ma questo paradigma non deriva né dalla reale situazione storica del mondo ebraico italiano dopo l’emancipazione, e nemmeno, direttamente, dalle ansie di assimilazione di una sua parte, ma dalla sovrapposizione a queste ansie della critica sionista. Una critica ancora più forte e radicale proprio perché è minoritaria e si esprime in un contesto di ampia e profonda integrazione degli ebrei nella società italiana.
Anche sotto l’aspetto della natura del sionismo italiano, appare così evidente quanto suggeriva anni fa Mario Toscano, cioè  il forte valore periodizzante  che la prima guerra mondiale assume nella storia del mondo ebraico italiano, la necessità che essa impone “di una ridefinizione della condizione esistenziale dell’ebraismo italiano”. E’ il 1916, quando comincia ad apparire  l’Israel, è il dopoguerra avanzato, e l’inizio della dittatura fascista, quando appare la Rassegna, il frutto più maturo e colto di questa nuova identità degli ebrei italiani, un’identità che per il momento riguarda solo alcune élites e che resterà ancora a lungo, fino al secondo dopoguerra, decisamente minoritaria.
Ma la Rassegna è anche altro: non solo reazioni alla grande storia che si svolge intorno, ma un’opera indefessa di presentazione di testi, letteratura, documenti, memorie, un’illustrazione costante di un mondo ebraico che si considera vivo, autonomo, in grado di elaborare in piena indipendenza dall’esterno pensiero, letteratura, poesia, come la sua lunga storia,  illustrata sulle pagine della rivista, ben dimostra. Di qui, lo spazio grande dedicato alla letteratura ebraica, tanto a quella medioevale che a quella più recente, e dopo il 1948 alla letteratura israeliana. Di qui, l’illustrazione dei percorsi biografici di personaggi noti e importanti come di volti strappati all’oscurità del passato attraverso una lettera, uno scritto, un’immagine. Un’immagine viva e vitale dell’ebraismo, rivolta agli ebrei, a sottolineare la loro storia, la loro cultura, il loro futuro ebraico.  Tranne che in qualche momento particolarmente alto, però, la Rassegna si dedica non a creare un mondo nuovo ma ad illustrare il passato e il presente, per farne partecipe un mondo ebraico troppo distratto, troppo ignorante della sua storia come anche del suo presente. L’impressione è quella di una via mediana, senza quelle rotture iconoclaste,  quella spinta alla trasformazione che fanno parte della storia di altre esperienze ebraiche del Novecento, da quella russa a quella tedesca. Nel bene e nel male, è la storia dell’ebraismo italiano e della sua trasformazione senza strappi, nella continuità e nella stabilità. Di questo mondo la Rassegna è specchio fedele e attento".

Anna Foa, storica

Corso di laurea - Campelli: "Ambizioni di crescita" 
Qui Napoli - Una cultura in tante culture
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Il teatro e i coloni
pubblicoLa petizione, firmata da numerosi artisti, registi di teatro e uomini di cultura israeliani, contro l’apertura di un teatro ad Ariel (località, com’è noto, all’interno dei Territori palestinesi), con l’esplicito invito agli artisti israeliani a non prendere parte alle attività programmate in tale sede, solleva diverse questioni.
Il problema della presenza ebraica nei Territori, com’è noto, rappresenta, dal 1967, uno dei principali nodi da risolvere sulla strada della soluzione del conflitto, e una delle principali richieste avanzata dalle controparti arabe, oltre che dalla Comunità internazionale, nei confronti di Israele. Nell’opinione pubblica israeliana la questione è sentita in modo diverso tra le varie componenti, e non c’è dubbio che, nella mancanza di una concreta prospettiva di pace, in consistenti fasce della popolazione si sia andata sedimentando una sorta di fatalistica accettazione dello status quo, considerato una condizione destinata a continuare indefinitamente nel tempo. Un atteggiamento fortemente contrastato dalle componenti più attive sul piano della ricerca della pace e del dialogo, per le quali la perpetuazione “sine die” sarebbe un grave errore, e ogni gesto in tale direzione (come il teatro ad Ariel) sarebbe pertanto da contrastare, nello stesso interesse dello Stato di Israele, per non ulteriormente pregiudicare le già deboli e remote prospettive di pace.
In realtà, la grande maggioranza dei cittadini israeliani è perfettamente consapevole che, sul tavolo dei negoziati di pace, la questione delle colonie rappresenterà certamente un prezzo da pagare, e nessuno si illude che sia possibile raggiungere un accordo senza un ragionevole compromesso su tale piano, che non potrà non imporre dolorose rinunce e consistenti sacrifici. Coloro, fra i coloni, che si oppongono in ogni caso all’idea di ogni concessione territoriale non sono che una sparuta minoranza, e anche questi, alla fine (forse con qualche eccezione, come in ogni Paese del mondo), accetterebbero, sia pure con estrema riluttanza e grande dolore, le decisioni democraticamente assunte dal Governo. Ci sarebbero, verosimilmente, atti di resistenza passiva e azioni dimostrative di strada, analoghe a quelle registrate in occasione degli sgomberi dal Sinai e poi da Gaza, dove alcuni abitanti si fecero incatenare alle loro case, per non abbandonarle, ma senza comunque commettere nessun gesto di violenza. Il triste lavoro di evacuazione fu portato a termine, nell’uno e nell’altro caso, senza il versamento di una sola stilla di sangue.
La verità è che, tra i cittadini d’Israele, la spaccatura non è sull’alternativa “colonie sì, colonie no”, ma, piuttosto, intorno alla domanda del “come e quando”. A chi bisogna restituire le colonie? A fronte di quali promesse? Con quali garanzie sul piano della sicurezza, della lotta al terrorismo, del raggiungimento di una vera pace? Molti ritengono che queste domande non debbano costituire un pretesto per perpetuare una situazione che danneggia Israele anche sul piano etico, oltre che politico, e vorrebbero quindi uno smantellamento immediato di tutte le colonie, senza nulla in cambio, come semplice rimozione di una situazione di illegalità. La maggioranza, però, pare non ritenere saggia e prudente una simile posizione, se non altro perché presenterebbe Israele sguarnito al tavolo negoziale: c’è qualcuno tanto ingenuo da ritenere che i palestinesi, riavuti tutti i loro territori, senza aver dovuto nulla concedere in corrispettivo (neanche una cartolina da Gilad Shalit), non porrebbero altre, pesanti condizioni, per firmare un accordo di pace?
Entrambe le posizioni, sia chiaro, sono perfettamente legittime, ma resta l’impressione che i sostenitori dell’imperativo della totale e immediata restituzione siano quelli, in fondo, che meno credono alla possibilità di una pace fatta con gli avversari, e non solo con sé stessi (cosa molto più facile), sul base di un ragionamento del tipo: “dato che la pace non si fa, cominciamo noi ad agire ‘pacificamente’”.
Non è il problema politico del futuro delle colonie, però, in questo caso, a essere posto in questione. Non si parla, infatti, di inaugurare nuovi insediamenti o di incrementare quelli esistenti, e nemmeno di decidere se Ariel debba o non debba sopravvivere in futuro, ma semplicemente di farvi operare, oggi che esiste, un teatro. Perché negare ai cittadini di Ariel questa innocua possibilità? Sono forse tutti dei pericolosi delinquenti? L’arte ha mai fatto male a qualcuno? Non sarebbe meglio invitare gli artisti ad andarci, ad Ariel, magari proprio per parlare di pace e di dialogo, o dello stesso, precario destino della cittadina e dei suoi abitanti?

Francesco Lucrezi, storico

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Cracovia - Inaugurato museo d'arte
all'interno della fabbrica di Schindler

Varsavia, 17 novembre
 
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Inaugurato ieri nell'ex fabbrica Oskar Schindler, il nuovo Museo d'arte contemporanea di Cracovia (Mocak). Il museo è stato costruito dall'architetto fiorentino Claudio Nardi, che nel 2007 assieme al suo collega Leonardo Prioli vinse il concorso per la sua costruzione. 
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In una giornata che, al momento in cui scrivo, sembra priva di importanti avvenimenti, il lettore si può concentrare nella lettura di articoli che permettono di meglio comprendere la direzione verso la quale andiamo tutti. »

Emanuel Segre Amar




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