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L'Unione informa
 
    14 gennaio 2010 - 28 Tevet 5770  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Alfonso Arbib Alfonso
Arbib,

rabbino capo
di Milano
Secondo il Talmud per merito delle donne giuste i nostri padri sono stati liberati dall'Egitto. Due di queste donne sono ricordate nella parashà di Shemòt, Yocheved e Miriam, le levatrici ebree a cui il faraone ordina di uccidere tutti i bambini maschi e che disubbidiscono all'ordine del faraone salvando così il popolo ebraico. Queste due donne vengono chiamate nella Torà Shifrà e Puà, un soprannome che indica la loro capacità di occuparsi della crescita e dell'educazione dei bambini. Ci saremmo aspettati che il soprannome indicasse invece il loro atto eroico. Forse il messaggio che ci vuole comunicare la Torà è che occuparsi dei bambini ed essere capaci di parlare con loro (il nome Puà indicherebbe, secondo Rashì, questa capacità) è talmente importante da essere considerato il vero elemento caratterizzante di queste due donne e il motivo per cui si può dire che, per merito delle donne giuste, i nostri padri sono stati liberati dall'Egitto. 
Nel ricevere il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede per il tradizionale scambio di auguri di inizio anno, papa Benedetto XVI ha lanciato il seguente appello: sia "universalmente riconosciuto il diritto di Israele ad esistere e a godere di pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti" e sia "ugualmente" riconosciuto "il diritto del popolo palestinese ad una patria sovrana e indipendente, a vivere con dignità e a potersi spostare liberamente". Il papa ha auspicato inoltre che di Gerusalemme sia protetta "l'identità e il carattere sacro" e "la sua eredità culturale e religiosa, il cui valore è universale". Parole misurate che, certamente, raccolgono il consenso della maggioranza. Ma il contenzioso in Medio Oriente non farà un passo decisivo in avanti finché non sarà "ugualmente" riconosciuto esplicitamente "il diritto del popolo ebraico ad una patria sovrana e indipendente, a vivere con dignità e a potersi spostare liberamente". Sergio
Della Pergola,

Università Ebraica di Gerusalemme
Anna Foa, storica  
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  Memoria 2 - Giorgio Perlasca, italiano scomodo

CopertinaGiorgio Perlasca. Un italiano scomodo di Carlotta Zavattiero e Dalbert Hallenstein edito da Chiarelettere e da oggi in libreria, così come il suo sottotitolo, è un “libro scomodo” che si legge con foga e con rabbia. Perché non è solo la storia del coraggio che hanno avuto in pochi, ma è soprattutto la riflessione su una vicenda dopo, a guerra conclusa, che è più istruttiva e di quella del gesto eroico o dell’atto esemplare compito in tempo reale durante la guerra.
Ma andiamo con ordine. Il libro è una biografia di Giorgio Perlasca (1910 -1992), l’uomo che si inventa un incarico, un’organizzazione con una struttura operativa di fortuna, salva migliaia di persone nell’inverno 1944-1945 a Budapest nelle ultime settimane del dominio delle “Croci frecciate” i collaborazionisti nazisti che governano l’Ungheria dall’estate 1944, a differenza di altre ambasciate che avevano la stessa possibilità di quella spagnola di agire (Città del Vaticano, Svezia, Portogallo) e che pure non agirono o ebbero dei conflitti interni. Ma soprattutto Giorgio Perlasca. Un italiano scomodo è una riflessione sull’“ingratitudine”.
Nato nel 1910, giovane entusiasta fascista, volontario dalla parte di Franco nella guerra civile spagnola (1936-1939), Giorgio Perlasca al momento dello scoppio della guerra impegnato in un’azienda di importazioni e di vendita di carni, il cui utilizzatore finale in gran parte è l’esercito, inizia un lento percorso di allontanamento dagli eccessi e si trova a partire dal 1941 sempre più in rotta di collisione con l’alleato tedesco in tutti gli scenari in cui si trova ad operare.
E’ una vicenda che impiega tempo a maturare mentre lungo le molte strade d’Europa il suo girovagare per lavoro lo mette vicino ad altri uomini e donne in movimento da Ovest verso Est. Nell’estate 1943 avviene la prima svolta sostanziale. Crolla il governo Mussolini, l’Italia prova ad uscire dall’alleanza col nazismo e Perlasca senza rinnegare niente del suo passato fa la scelta di lealtà verso la monarchia. In quel momento si trova a Budapest e vi rimarrà fino a guerra conclusa. In quei 18 mesi la sua situazione si fa sempre più precaria e in quanto italiano non schierato con Salò in un Paese in cui i fascisti locali prendono sempre più potere i rischi per la sua incolumità aumentano. Poi nell’estate 1944 la situazione precipita e il movimento delle “Croci frecciate” prende il potere per stroncare sul nascere l’iniziativa del governo collaborazionista ungherese favorevole all’abbandono dell’alleanza con la Germania nazista. Inizia così l’ultima fase dell’occupazione nazista dell’Ungheria e i quattro mesi da fine agosto 1944 fino al 17 gennaio 1945 quando Pest cade in mano ai russi sono una lotta per impedire che ciò che resta del mondo ebraico ungherese sia trasportato ad Auschwitz. Nell'inverno del ' 44, addetto commerciale all'ambasciata italiana a Budapest dove si era rifugiato in seguito al rifiuto di aderire alla Repubblica di Salò, Perlasca si trasforma in eroe. Con la città occupata, e i diplomatici in fuga, si "insedia" all'ambasciata di Spagna fingendosi rappresentante del governo di Madrid. In questa "veste" firma 5200 lasciapassare ad altrettanti ebrei, spacciandoli per cittadini spagnoli, che gli uomini delle SS avevano già deciso di trasferire in Germania.
In quella vicenda Perlasca gioca tutte le sue carte ed è l’uomo che attraverso il falso, e in forza della falsa copertura che gli fornisce l’addetto dell’ambasciata spagnola riesce a mettere in salvo o sottrarre dalla morte migliaia di ebrei ungheresi ma anche di non ebrei (tra loro comunisti, democratici, anarchici..).
Fin qui la vicenda che raccontano Carlotta Zavattiero e Dalbert Hallenstein in parte era stata già ricostruita da Enrico Deaglio nel suo La banalità del Bene (Feltrinelli 1991) e poi trasposta nella riduzione cinematografica nel 2002 da Alberto Negrin. Ma essi ampliano l’indagine soprattutto al periodo successivo al gennaio 1945 e dunque riprendono il filo del ragionamento non considerando solo ciò che accadde a Budapest, ma ponendo la domanda intorno al fatto che quella vicenda non divenne pubblica, che nessuno in Italia dopo ne parlò. E ciò apparentemente in maniera sorprendente perché Perlasca poteva essere l’icona del “bravo italiano” che tutti, o almeno tanti cercavano di dimostrare di essere stati. Solo che era “esageratamente bravo” e dunque quella sua dimensione eccessiva anziché contribuire a emendare tutti, risultava alla fine imbarazzante per tutti. Il fatto sostanziale tuttavia non è solo che Perlasca ha rappresentato un’eccezione, ma anche che dopo, a guerra finita la sua vicenda ha impiegato molto tempo a divenire pubblica e ad essere nota. Perché si chiedono Carlotta Zavattiero e Dalbert Hallenstein?
Si potrebbe dire molte cose. Perlasca nel secondo dopoguerra non ha mai rinnegato il suo passato fascista, non ha mai taciuto la sua partecipazione alla guerra civile spagnola dalla parte di Franco, non ha mai negato sostanzialmente la sua convinzione politica non solo di allora, ma ha anche confermato in gran parte di crederci ancora. In breve quella vita e quella storia non erano l’effetto di una dimissione dal proprio passato, ma si presentavano come in continuità con esso.
Non solo. Perlasca provò a raccontare la sua storia. La raccontò e la scrisse al rappresentante del governo spagnolo, la scrisse a De Gasperi, allora Primo ministro, ma il risultato fu il silenzio. Perché?
Per gli spagnoli era un italiano che aveva svolto un compito non rivendicabile dalla Spagna e nemmeno rivendicabile da quell’addetto che pure all’inizio lo aveva aiutato per poi scomparire nel momento più drammatico. Per il governo italiano era comunque imbarazzate scoprire che fare qualcosa era possibile, che sarebbe stato necessario organizzarsi oppure ingegnarsi, comunque che la macchina della distruzione non era invincibile, che aveva punti di debolezza e che non era necessaria neppure una struttura operativa colossale.
Il risultato è che la vera continuità fu rappresentata dall’indifferenza - quella di allora che preferì non agire e quella di dopo che preferì “insabbiare”. Fino alla fine degli anni ’80, quando la storia di Perlasca cominciò a girare. Ma anche allora accolta da molti con imbarazzo: a sinistra perché quel passato fascista faceva da schermo alla convinzione che solo rinnegandolo si poteva agire per fermare lo sterminio; a destra perché la nostalgia di Salò non consentiva poi di dare spazio a quella scelta in solitudine; da parte della Chiesa perché quella scelta dimostrava che molto sarebbe stato possibile fare, ma che anche a Budapest il Vaticano fu silente e reticente.
Un atteggiamento imbarazzato che non si risolve nemmeno con al morte di Perlasca. Ai suoi funerali in Chiesa interviene il rabbino di Padova di allora, gli ambasciatori di Spagna e di Israele, l’incaricato d’affari d’Ungheria a Roma, una delegazione dei vigili urbani di Como, città natale di Perlasca, il sindaco e il Prefetto di Padova. E’ assente il governo italiano che pure gli ha conferito una medaglia, ma invitandolo a Roma al Quirinale, Presidente Francesco Cossiga, ma non pagandogli nemmeno il biglietto ferroviario di seconda classe per poterla ritirare. Invia un telegramma Giovanni Spadolini, Presidente del Senato e Oscar Luigi Scalfaro in quel momento Presidente della Repubblica. Nessuna gerarchia della Chiesa, incluso il Vescovo di Padova, che pure è presente ad ogni cerimonia pubblica e o non manca mai di inviare il suo messaggio, si fa vivo in quell’occasione. A suo modo quella scena che si svolge il 18 agosto 1992 nella chiesa di Sant'Alberto Magno, a Padova è la sintesi di una storia, ma anche la radiografia dell’imbarazzo che ha accompagnato tutta la vicenda. Una storia che si fonda sul carattere di un uomo in cui si congiungono franchezza, schiettezza e rifiuto di piegarsi ai potenti. “Parole - concludono Carlotta Zavattiero e Dalbert Hallenstein - apprezzate da tutti - destra, sinistra, Vaticano - ma che furono di fatto la sua rovina”.

David Bidussa


Qui Roma - Una mostra fra storia, identità e dialogo

CopertinaFigure umane animali e oggetti di ogni genere, motti, citazioni dei Salmi e del Pentateuco scritte in ebraico fiorito con traduzione in latino, le civette che trainano il carro della Minerva,  una giovane donna che inneggia a Papa Corsini dicendo "nel cor s'inalza la letizia mia", l'Aurora Rospigliosi, arcobaleni, colonne, api, aquile e perfino una corsia d'ospedale dove i malati si alzano dal letto risanati dal suono di una cetra sono alcune delle immagini relative ai pontificati di Clemente XII (1730), Clemente XIII (1758), Clemente XIV (1769) e Pio VI (1775), che documentano la partecipazione degli ebrei del ghetto al gaudio per l'elezione del nuovo papa come cittadini romani a pieno titolo, e che fanno parte della mostra “Et ecce gaudium. Gli ebrei romani e la cerimonia di insediamento dei Pontefici” che aprirà i battenti domenica 17 gennaio in occasione della visita di papa Benedetto XVI al tempio Maggiore di Roma (nell'immagine un momento dell'allestimento della mostra).
La mostra resterà aperta al pubblico fino all'11 marzo e sarà presentata oggi ai giornalisti in una conferenza stampa organizzata in una delle sale del Museo. A curarla la direttrice Daniela Di Castro coadiuvata da un comitato scientifico di cui hanno fatto parte, oltre alla Di Castro, lo stesso rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, Silvia Haia Antonucci, Claudio Procaccia, Giancarlo Spizzichino dell'Archivio storico della Comunità e Olga Melasecchi.
Il catalogo della mostra edito da Araldo De Luca, contiene contributi in italiano e in inglese di di Silvia Haia Antonucci, Daniela Di Castro, Serena Di Nepi, Riccardo Di Segni, Olga Melasecchi, Claudio Procaccia, Andreina Rita, Giancarlo Spizzichino.
La mostra è un'ulteriore testimonianza di quanto la presenza ebraica nella capitale sia antica e significativa. Nonostante l'istituzione del Ghetto nel 1955 per effetto della bolla Cum nimis absurdum di papa Paolo IV, che revocò tutti i diritti concessi agli ebrei romani fra cui i diritti civili, vietando loro di leggere e studiare il Talmud e di tenere banchi di pegno, la loro presenza era ammessa lungo il percorso che il nuovo Pontefice compiva dal Vaticano al Laterano per prendere possesso della basilica, chiamati a far parte della processione festosa che accompagnava il papa per il tratto che andava dall'Arco di Tito al Colosseo monumenti tristemente dolorosi per la Universitas Hebraeorum e ad abbellire le strade e le facciate dei palazzi lungo questo percorso. Apparati effimeri era il nome di questi dipinti fatti di carta, colorati con le tempere e destinati a durare per una sola giornata, ma nell'Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma ne sono stati rinvenuti quattordici (erano più di ottocento) e costituiscono il corpus della mostra.
Tra gli oggetti e i documenti che vengono esposti assieme ai pannelli ve n'è uno che è stato appena donato al Museo da un'antiquaria: un anello d'oro da uomo il cui cammeo raffigura papa Pio VII Chiaramonti con una doppia fascia che si può aprire e al suo interno c'è l'iscrizione Immanuel in ebraico.
 
Lucilla Efrati


Un ebreo fiero di essere

Rabello“In quei giorni, quando Moshé era divenuto grande, si recò a trovare i suoi fratelli e vide i loro lavori pesanti… “(Esodo 2:11). In questo versetto è detto tutto; poteva starsene comodamente nella sua bella casa a godere dell'alta posizione raggiunta, "Il faraone l'aveva nominato capo della sua casa" (Rashì, nella traduzione di S.J.Sierra), ma Moshé preferisce andare a trovare i suoi fratelli e dall'alto della sua posizione si rende conto delle loro sofferenze; quella fraternità che era mancata per tanto tempo nei rapporti fra Giuseppe e i suoi fratelli, appare qui subito evidente e profonda nell'atteggiamento di Moshé. "Egli si rivolse a loro con gli occhi e con il cuore per soffrire con loro" (Rashì). "Osservava le loro sofferenze, piangendo diceva: Mi dispiace per voi, oh potessi morire per voi!" (il Midrash).
C'è un vedere dell'indifferenza, e c'è un vedere della partecipazione. "Ha dato il suo cuore per vedere la povertà dei suoi fratelli" (Sforno). In questo consisteva la sua grandezza, che ha saputo uscire dalla sua casa per andare dai suoi fratelli ed in questo seguiva l'esempio di Bitia, la sua madre adottiva, la figlia del faraone che lo aveva salvato anche contro l'editto del padre (Rav Amos Rabello).
Come sapeva Moshé che quelli erano i suoi fratelli? Può essere, dice Ralbag, che girasse la voce nella casa del faraone che Moshé era ebreo e così lo seppe anche lui, oppure glielo disse la figlia di faraone: nella nostra lunga storia conosciamo qualche piccolo personaggio che avrebbe fatto di tutto per tener nascosta la sua ebraicità; Moshé non ha questi complessi: apprende di essere ebreo e agisce immediatamente allo scoperto.
Secoli dopo dirà il Rav J.B. Soloveitchik: "Un ebreo che crede nel popolo ebraico è un ebreo che vive col popolo ebraico dove si trova ed è pronto ad offrire la sua vita per lui, soffre delle sue sofferenze e gioisce delle sue gioie, partecipa alle sue guerre, si rattrista per le sue cadute e festeggia le sue vittorie…"(Al Hateshuvà, Gerusalemme, 1974, p. 98, in ebraico). Il Rav Zvi Jehuda Kook nelle sue conversazioni con gli allievi, metteva in risalto un altro aspetto del versetto: echav, i suoi fratelli. La prima azione di Moshé a contatto col suo popolo è stata il rinforzamento dall'interno; tutti, anche i meno buoni, sono considerati in questo frangente come echav: con questo è aperta la strada, lunga e complicata, verso la Gheulà.

Alfredo Mordechai Rabello, giurista, Università Ebraica di Gerusalemme


Qui NY - Mina Bern (1911-2010), gran signora del teatro yiddish

LocandinaAttrice e cantante in lingua yiddish fra le più amate dagli appassionati di teatro, è morta a Manhattan, all'età di novantotto anni, Mina Bern.
Nata nel lontano 1911 a Bielsk Podlaski, in Polonia, Mina inizia a recitare sin da giovanissima: la sua passione sono gli sketch satirici ed i piccoli monologhi. Appena i nazisti attaccano il paese, scappa in tutta fretta in Unione Sovietica con la figlia. Ci resta per qualche anno, continuando a portare sul palco le sue doti di cabarettista, particolarmente apprezzate in quei tempi così difficili. Poi, in modo un po’ avventuroso, emigra in quello che a breve sarebbe diventato lo Stato di Israele. Nel 1949, subito dopo aver visto il sogno di Theodor Herzl trasformarsi in realtà, si trasferisce a New York, dove diventa una delle star dell’Yiddish Theatre, storico edificio in cui nel passato si erano esibiti alcuni grandissimi artisti, come il premio Oscar Paul Muni e il mitico Jacob Adler. Ma quando Mina arriva nella Grande Mela, questo teatro situato nella Second Avenue ha considerevolmente perso di appeal, soprattutto perché l’yiddish non è più una la lingua tanto conosciuta all’interno della vasta comunità ebraica newyorkese. Tuttavia, lei e il suo futuro marito Ben Bonus riescono a rivitalizzare un ambiente in grande crisi e a riportarlo ai fasti di un tempo. E lo fanno con grande impegno ed umiltà. Oltre a recitare, infatti, spesso si occupano di disegnare gli scenari, cucire i vestiti e talvolta vendono persino i biglietti al botteghino. Perché, come ha raccontato una volta Mina, quella di salvare l’yiddish dall’oblio era per entrambi “una missione”. Che difatti li ha portati ripetutamente in tournee negli Stati Uniti, ma anche in Canada e America Latina, ovunque vi fosse la possibilità di proporre questa affascinante lingua e cultura “a persone non abituate alla sua magia”. Di Mina era nota soprattutto la sua versatilità, che le permetteva, come scrive il New York Times, di “recitare la parte della donna un po’ civetta in una scena, quella della ficcanaso in un’altra e quella dell’attempata madre che i figli non vogliono più sotto il tetto familiare in un’altra ancora”. Merito anche, parola dell’amica e collega Nahma Sandrow, dei “suoi intensi occhi blu e del suo modo di recitare così innocente, anche quando si trattava di interpretare personaggi alquanto irritanti”. Insieme al marito, ha portato a Broadway alcuni show di grande successo, come Let’s Sing Yiddish e Light, Lively and Yiddish. Gli spettatori gradivano in particolare il duetto Vos Dergeystu Mir Di Yorn? (Perché stai rovinando i miei anni?) con il quale i due salivano sul palco. La passione per il teatro non ha mai abbandonato Mina, che ha continuato a recitare fino a pochi mesi fa. Nel 2002, ad esempio, era stata la signora incaricata di occuparsi del mikvé nel musical Yentl, mentre nel 2005 aveva interpretato se stessa in uno show autobiografico. Non disdegnava neanche il cinema, tanto da prendere parte ad alcuni film prodotti ad Hollywood, tra cui Avalon e I’m Not Rappaport. Il suo ruolo? L’anziana signora proveniente dall’Est Europa.

Adam Smulevich


L’idea messianica nel pensiero ebraico

LocandinaRipercorrere la storia dell’idea messianica all’interno del pensiero ebraico, raccontandola attraverso i contributi che maestri e filosofi ebrei, hanno fornito nel corso dei secoli. È questo lo scopo del libro “ Il messianesimo ebraico” edito da Giuntina, che sarà presentato oggi alle 17 al centro Bibliografico dell’UCEI. Alla presentazione interverranno il rav Benedetto Carucci, Giacomo Marramao, Elio Matassi, Katrin Tenenbaum e Paolo Vinci.
L’approccio è cronologico, ma come racconta Ilana Bahbout, che insieme a Dario Gentili e Tamara Tagliacozzo, ha curato la pubblicazione del libro, funzionale ad un esame dell’idea messianica sotto diversi punti di vista: storico, sociologico e politico. Il libro nasce da una serie di seminari tenuti presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma Tre, che hanno visto il contributo di personalità ebraiche e non, attorno ad un tema così gravido di conseguenze per la storia ebraica. Scopo di questa ricerca è anche la riscoperta diretta delle fonti scritte sulla figura messianica, che parte dal Tanach e dal Talmud, fino a giungere alla codificazione Halachica. L’esame si snoda poi attraverso i secoli, dall’approccio razionalista Maimonideo, passando per la “disastrosa” avventura messianica di Shabbatai Zvi, fino a giungere al ‘900, secolo in cui la figura messianica si carica di nuovi significati all’interno delle riflessioni filosofiche di Walter Benjamin e Emanuel Levinas.
Come sottolineato da Gershom Sholem, il cui studio è spesso citato nel testo, il prezzo che la storia ebraica ha pagato all’idea messianica, intesa quale via di fuga da una realtà spesso fatta di sofferenze e costrizioni, è stato ampio, ma è innegabile il fascino che ancora oggi questa idea è in grado di trasmettere.

Daniele Ascarelli
 
 
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  Rav Di SegniDialogo e marmellata

Riprende in questi giorni, dopo l'interruzione polemica dello scorso anno, la celebrazione annuale della giornata di amicizia ebraico-cristiana che, secondo il programma stabilito anni fa da rav Laras e monsignor Paglia, dovrebbe occuparsi ogni anno della discussione di uno dei dieci comandamenti. L'argomento di oggi sarà quindi il Sabato. Ne parleremo tra l'altro a Roma questa sera alle 18 all'Università Lateranense. L'argomento è interessante insieme a tutte le contraddizioni che fa emergere. Perché il rapporto ebraico cristiano ancora oggi oscilla tra un estremo di opposizione totale da una parte, a quello di una marmellata dolciastra che confonde tutto, dall'altra. Un esempio di questo ultimo rischio è in un articolo di presentazione dell'iniziativa di oggi, su un grande quotidiano, dove è stato scritto che "la consacrazione del sabato non andrebbe esasperata, semmai dovrebbe essere vissuta nello spirito dei Vangeli". Ora due concetti devono essere chiari, nel pieno rispetto reciproco: che chi segue lo spirito dei Vangeli non deve osservare il Sabato e chi osserva il Sabato non ha bisogno di seguire lo spirito dei Vangeli. Un esempio di quanto è difficile in questo campo comunicare, spiegare ed evitare, appunto, la marmellata.

Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma



Il Tizio della SeraQuesiti scientifici

Adesso che Oliver Stone ha chiarito il tragico destino di Adolf Hitler, svelandone il ruolo di vittima di un disegno ben più ampio del semplice nazismo, rimane da chiarire cosa sia una vittima, cosa ampio, e poi se Stone possieda una mente o si avvalga di una semplice lattuga.

Il Tizio della Sera
 
 
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rassegna stampa    
 
 
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E’ il giorno del rabbino capo di Roma. Non si contano le interviste rilasciate ieri da Riccardo Di Segni ai maggiori quotidiani italiani. L’umore che si respira tra i corridoi della Comunità ebraica è sintetizzato dal Rav nel titolo de La Stampa: “Col Papa dialogo complicato ma non si ferma”.  Sono stati giorni difficili, come spiega lo stesso Di Segni, segnati, come è noto, dalle polemiche sulla beatificazione di Papa Pio XII. Eppure, riporta il Corriere dopo il colloquio di ieri al Tempio, per la politica dei buoni rapporti la presenza di Benedetto XVI al Tempio Maggiore della Capitale, domenica, “sarà segno di amicizia e pace”. Nelle interviste, Di Segni cerca di ricordare al mondo che gli ebrei non vogliono lasciar scivolare via la santificazione di Pacelli come fosse argomento che riguarda esclusivamente la Chiesa, e al tempo stesso prova a tenere le polemiche nel cassetto. Insomma, una linea prudente. Anche perché, come svela Di Segni, con Ratzinger si parlerà di Pio XII (Il Messaggero, Il Giornale). Magari in privato, per ribadire che se si vuole arrivare a una decisione serena “gli archivi vaticani vanno letti tutti e senza fretta” (Repubblica). In pubblico parlerà del ruolo degli ebrei, attraverso i simboli, nella storia. E se qualcuno non gradisce la presenza di questo Papa in Sinagoga, spiega a Il Tempo, rispetterà tutte le decisioni degli iscritti alla Comunità. La piazza, infatti, è divisa. Basta leggere l’intervista all’ex deportato Piero Terracina sul Corriere per capirlo: lui non parteciperà all’evento, “ricordo bene i giorni di Pio XII”. E Ratzinger, prima di entrare al Tempio, passerà proprio ai margini del Portico d’Ottavia (Riformista). Anche per questo i sistemi di sicurezza dovranno funzionare al massimo delle potenzialità. Il Messaggero anticipa alcune delle precauzioni prese per la visita di domenica: dai tiratori scelti ai sigilli ai tombini e la bonifica del sottosuolo (qualche dettaglio anche su Libero).
Interessante la versione di Giacomo Saban, che nel 1986 accompagnò Papa Giovanni Paolo II in Sinagoga, nella prima storica visita tra la Comunità ebraica e la Chiesa di Roma. Sul Riformista Saban ha un atteggiamento più “morbido” nei confronti di Ratzinger, rispetto agli attuali amministratori della Cer.
Da una polemica a un’altra. E’ partita la campagna elettorale per le elezioni regionali e, come di consueto, i giornali iniziano a chiedersi da che parte sta la Comunità ebraica. Naturalmente, il voto degli iscritti è trasversale, come spiega Pacifici. Che resta però appeso a una frase strappata da Repubblica: “Ho la tessera radicale”. E a candidarsi nel Lazio c’è Emma Bonino (Radicali) contro Renata Polverina (Pdl). Le parole di Pacifici sono riprese anche da Libero, che nella cronaca di Roma vengono però smorzate da una precisazione: “Il mio voto è segreto. La Comunità vota come crede”.
 
Fabio Perugia

 
 
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Pacifici: “Un privilegio la visita di Benedetto XVI in sinagoga”  
Roma, 13 gen -
“C'è grande entusiasmo per il privilegio di avere il Pontefice alla sinagoga domenica prossima”, così il presidente della Comunità Ebraica di Roma definisce il clima che si respira a pochi giorno dall'atteso evento. E ancora: “Sarà strapieno di ospiti internazionali e questo ci conforta perché il dialogo per noi è una delle cose più importanti”. E in merito alla possibilità che in quell'occasione si accenni anche alla beatificazione di Pio XII, Pacifici ha risposto: "Lo vedrete il 17 gennaio".
 
 
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