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L'Unione informa
 
    10 novembre 2009
23 Cheshwan 5770
 
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  Roberto Della Rocca Roberto
Della Rocca,

rabbino
Dopo l’esperienza della legatura di Isacco la Torah ci dice che Abramo… “ tornò dai suoi ragazzi…” (Genesi, 22; 19). Molti si chiedono dove fosse finito Isacco, perché padre e figlio non sono più jachdàv, insieme? A questo proposito vengono riportate alcune diverse interpretazioni tra cui quella che Isacco sarebbe andato a studiare Torah da Shem ed Ever, una sorta di scuola intergenerazionale. C’è quindi una drammatica separazione tra Abramo e Isacco appena dopo la legatura. È ora che il ragazzo abbia un Maestro che non può più essere solo suo padre. Secondo un’altra suggestiva esegesi Isacco si sarebbe rifugiato per tre anni nel Gan Eden per essere guarito dalle ferite che il padre gli avrebbe procurato. E’ come se un po' di sacrificio si fosse realizzato. Se nella prima interpretazione ci viene insegnato che anche dopo aver toccato vette spirituali molto alte si deve tornare con i piedi per terra, nella seconda viene messa in evidenza la necessità di un periodo di convalescenza conseguente a esperienze profonde e traumatiche.
Qualsiasi grande opera umana possiede una personalità dichiarata dai suoi autori. Solo il tempo riesce a rivelarne l'anima. Vittorio Dan Segre,
pensionato
vittorio dan segre  
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  Vent'anni dalle Intese - La minoranza ebraica in Italia  
fra legge, pluralismo e identità religiosa


renzo gattegna claudia de benedettiIn che modo la fioritura culturale e la riscoperta identitaria che hanno caratterizzato l’ebraismo negli ultimi vent'anni può esser messa in relazione con la firma dell'Intesa ebraica con lo Stato italiano? Può la stabilità della condizione giuridica e l’uguaglianza dei diritti aver avuto un riflesso nell’apertura del mondo ebraico verso la società italiana?
Sono questi alcuni fra gli interrogativi emersi nel corso del convegno di studi “Il ventesimo anniversario dell’Intesa ebraica”, organizzato dalla Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec) e dalla Facoltà di Giurisprudenza di Roma Tre, con il patrocinio dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (nell'immagine Arrigo Levi, Renzo Gattegna e Claudia De Benedetti al convegno).
Come affermato dal professor Giorgio Sacerdoti, giurista e presidente del Cdec: “L’intesa impose alle comunità di attivarsi e competere per mantenere l’identità religiosa e la coesione sociale pur nel rispetto del pluralismo interno”, costituì quindi per l’ebraismo non soltanto un punto di arrivo ma di partenza. Fu un punto di arrivo perché assicurò nel concreto la piena uguaglianza dei diritti che dalla Carta Costituzionale erano riconosciuti formalmente, ma fu anche un punto di partenza perché riconobbe all’ebraismo italiano l’autonomia statutaria, rendendolo concretamente autonomo.
“Il riconoscimento dell’autonomia statutaria segnò la fine dei controlli statali e l'affermazione dell’originarietà dell’ordinamento ebraico, non più emanazione dello Stato ma espressione di un autogoverno che affonda le sue radici nella tradizione ebraica”, così ha scritto il giurista Guido Fubini in un messaggio inviato per l'occasione vista l'impossibilità a partecipare fisicamente al convegno.
L’Intesa segnò quindi per l’ebraismo italiano l’inizio dell'indipendenza e della possibilità di auto-organizzarsi senza limitazioni e controlli esterni.
Redatta nel 1987 e convertita in legge due anni dopo, diede attuazione ai principi e alle norme della Costituzione italiana e, come affermato dal presidente Ucei Renzo Gattegna, costituì per gli ebrei “la riconquista della libertà, la fine del periodo più tragico della loro storia e la salvezza da quel genocidio scientificamente pianificato e attuato che chiamiamo Shoah”. “Ma non è possibile comprendere in pieno l'umiliazione, la rabbia e l'incredulità con la quale gli ebrei subirono l'emanazione e l'attuazione delle leggi razziste - ha spiegato Gattegna - se non si ricorda la generosità e l'entusiasmo con i quali essi avevano partecipato alla costruzione dello Stato unitario, di cui furono una componente essenziale combattendo nelle guerre risorgimentali e nella Prima Guerra Mondiale”.
L’Art. 17 dell'Intesa definisce le comunità “formazioni sociali originarie” i cui compiti investono l’intera vita ebraica in conformità a una tradizione millenaria. Quindi l’Intesa ebbe il merito di “rendere compatibili due ordinamenti”: l'aspetto religioso in primis ma anche l'estensione al controllo delle istituzioni. L’intesa infatti non regola soltanto il culto ma anche, fra le altre cose, l’educazione ebraica, prevede il diritto per gli studenti ebrei di esser dispensati dall’ora di religione cattolica nelle scuole e il diritto dei dipendenti statali e privati al riposo sabbatico.
L’Intesa non ha soltanto inciso profondamente nella vita delle comunità ebraiche ma anche nella percezione che i cittadini italiani hanno dell’ebraismo. La condanna della Shoah e di ogni forma di antisemitismo sono divenuti patrimonio comune della società italiana, così come il riconoscimento e l'interesse ritrovato per quegli innumerevoli beni culturali ebraici, ciò a contribuito all'istituzione della Giornata della Memoria e della Giornata europea della cultura ebraica.
Il convegno non si è quindi limitato all’esame dell’Intesa nella sua componente strettamente giuridica ma, come affermato dal professor Carlo Cardia, docente di Diritto ecclesiastico dell’Università di Roma Tre, è andato volutamente oltre. “Il dato giuridico in questo convegno verrà esaminato assieme a ciò che ha preceduto ed è seguito a quegli storici accordi”, così Cardia ha inaugurato la giornata di studi.
“Nel nostro Paese si va sviluppando da tempo un pluralismo religioso consistente, aperto a diverse preferenze e tradizioni, garantito da principi costituzionali di laicità e libertà religiosa - ha spiegato ancora il professore di Diritto ecclesiastico nel suo intervento - ma il nostro è un pluralismo acerbo, segnato da polemiche che investono i rapporti fra le confessioni, al quale lo Stato cerca di rimanere estraneo, e che costituisce l'eredità della nostra storia nazionale.Ho sempre pensato che l’attuazione dell’articolo 7 e dell’articolo 8 della Costituzione, oltre a rendere operante il principio di eguale libertà delle confessioni, potesse svolgere anche la funzione di rasserenare il clima dei rapporti interconfessionali, facendo crescere il dialogo tra le religioni, superare almeno le punte più aspre di una polemica che da noi si trascina più che altrove. Naturalmente ciò in parte è avvenuto. E’ avvenuto proprio nel rapporto tra cristiani ed ebrei, ad esempio con gli incontri indimenticabili tra Giovanni Paolo II, la Comunità Ebraica di Roma, il suo Rabbino Capo Elio Toaff”. “D’altra parte l’ Intesa - ha spiegato ancora Cardia - è frutto della storia millenaria degli ebrei italiani e costituisce il portato della raggiunta emancipazione e integrazione nella società italiana e ha riconosciuto l’apporto storico e culturale che essi hanno saputo dare alla società italiana ed è quindi a suo modo un unicum difficilmente estendibile ad altre confessioni religiose”.

Daniele Ascarelli e Valerio Mieli

Le versioni integrali dei discorsi del Presidente Ucei Renzo Gattegna, del professor Carlo Cardia  e del Professor Giorgio Sacerdoti sono disponibili sul Portale dell'ebraismo italiano moked.it



primolevi.it occasione di incontro e conoscenza
sull'opera dell'autore di Se questo è un uomo

immDa questa settimana il web offre nuove occasioni di conoscenza dell'opera di Primo Levi. La presentazione ufficiale del Centro Sudi Internazionale Primo Levi di Torino ha costituito l'occasione per rendere pubblico il sito www.primolevi.it
Gli utenti avranno la possibilità di scoprire, attraverso uno strumento semplice e diretto, l’opera, il pensiero e la personalità di uno dei più grandi autori italiani del Novecento. “Per Primo Levi era essenziale il dialogo con il pubblico; noi vorremmo continuare e facilitare questo rapporto” ha dichiarato il direttore del Centro, Fabio Levi, durante la conferenza stampa. Il sito pertanto si presta come mezzo ideale per coltivare questo obbiettivo: tutti avranno la possibilità di consultare, in italiano o in inglese, un incredibile quantità di documenti e informazioni riguardanti la vita e le opere dello scrittore torinese, testimone della tragedia della Shoah ma anche osservatore privilegiato della realtà contemporanea.
“L’esperienza di Primo Levi è nostra, è attuale” ha sottolineato Amos Luzzatto, presidente del Centro, che ha poi aggiunto “la lettura delle sue opere non ci dà delle risposte ma degli spunti drammaticamente veri. Lui ha cominciato un discorso che deve continuare; ci invita a riflettere e analizzare la realtà”. Appare dunque molto importante il lavoro di cerniera fra autore e pubblico che l’associazione si propone di portare avanti.
D’accordo sull’attualità del pensiero di Levi, Domenico Scarpa, curatore del lavoro di ricerca bibliografica, che ha spiegato “non vogliamo fare archeologia ma restituire al presente il pensiero di uno dei più grandi autori moderni. Se conosciamo male la contemporaneità avremo uno sguardo nebuloso sul passato e cammineremo a stento nel futuro”.
Oltre al sito, si potrà consultare, presso la biblioteca dell’Istituto storico della Resistenza di Torino il fondo bibliografico di circa duemila titoli, che comprende edizioni italiane e straniere degli scritti di Primo Levi.
Questa sera nell’aula magna della facoltà di Scienze Naturali, Fisiche e Matematiche, avrà inizio il ciclo di incontri “Lezione Primo Levi”. L'iniziativa ha cadenza annuale e si rivolge in particolare ai giovani, a cui Levi dedicò sempre un occhio di riguardo. Non a caso quest’anno, alla lezione "Sfacciata fortuna" (Se questo è un uomo): la Shoah, il caso e l’uomo normale" tenuta dal professor Gordon, docente dell’università di Cambridge, sono state invitate due classi del liceo D’Azeglio (lo stesso di Primo Levi). Gli alunni, oltre a seguire la conferenza, avranno la possibilità di confrontarsi in classe con il relatore sul tema da lui trattato.

Daniel Reichel


Qui Trieste – Le velenose ambiguità dello storico Nolte


nolteSi celebra in Germania ma anche nel resto d’Europa, il ventennale dalla caduta del Muro di Berlino. Manifestazioni, concerti, convegni, il ricordo di quei giorni che cambiarono il corso della storia è avvenuto in molteplici modi. Quello scelto dall’amministrazione cittadina triestina è stato però alquanto discutibile. Ospite d’onore di un convegno organizzato dall’assessorato alla cultura e intitolato “Le premesse storiche della costruzione e del crollo del Muro di Berlino”, infatti, è stato lo storico tedesco Ernst Nolte (nella foto in alto). Un personaggio estremamente ambiguo, più volte accusato di voler riabilitare il nazionalsocialismo. Nolte, dal canto suo, ha sempre negato qualsiasi genere di simpatia nei confronti di quell’ideologia, e lo stesso farà durante l’appuntamento triestino, quando, rivolto alla platea, dirà: “Non sono mai stato filonazista, né conosco alcun tedesco che stia aspettando l’arrivo di un nuovo fuhrer”. Sarà. Le sue spiegazioni, però, non devono essere state così convincenti visto che ieri sera, poco prima di prendere la parola, una cinquantina di persone hanno protestato con veemenza per la presenza di un individuo così controverso in sala. Sono volate parole forti (“fascisti vergogna” e “voi non siete la nostra storia”), indirizzati verso gli organizzatori dell’evento. Poi, scortati dalle forze dell’ordine, i dimostranti sono usciti (o sono stati fatti uscire, non si è ben capito) dalla sala. Nolte, durante quei minuti è rimasto immobile e apparentemente imperturbabile, probabilmente abituato a scene del genere in occasione dei convegni ai quali partecipa come relatore.
“La causa principale dell’avvento del nazionalsocialismo è da ricondursi ai massacri compiuti dei bolscevichi” la sua tesi, che vede l’elezione di Hitler come reazione al timore di una sempre maggiore pressione e influenza sovietica da Est.
“Il nazionalsocialismo aveva nella sua testa un nemico e questo nemico era il marxismo”, sarà questa la contrapposizione alla base di quella che Nolte chiama guerra civile europea, conflitto ideologico intestino al Vecchio Continente che si sarebbe protratto per quasi un trentennio, dal 1917, anno della Rivoluzione Russa, al 1945, quando fu firmato l’armistizio che pose fine al secondo conflitto mondiale. A farne le spese gli ebrei. Identificati dai nazisti come i fondatori e i promulgatori del comunismo, la soluzione finale viene vista dal regime come una necessità per mantenere la stabilità del paese e distruggere il germe comunista . O quantomeno, nella versione un po’ soft che viene generalmente contestata a Nolte, un bilanciamento neanche troppo anormale con la “barbarie asiatica” dei sovietici. A sentire lo storico tedesco, poi, la soluzione finale sembra che sia stato perpetrata solamente da uomini in divisa, come se il coinvolgimento e molto spesso la partecipazione entusiastica della popolazione siano stati solo dei dettagli. Sarà che deve parlare di oltre ottanta anni di storia e deve affrontare i vari capitoli delle vicende tedesche del secolo scorso con una certa celerità, ma il dubbio sulle sue idee in proposito resta. Lui, però, si schermisce: “Chi pensa che io sia un revisionista nel senso dispregiativo del termine non ha mai letto i miei libri”.
Il sospetto che sia almeno un po’ antisemita, però, è qualcosa di molto fondato. In occasione di un convegno filosofico organizzato nel 2003 a Palazzo Madama, infatti, Nolte paragonò lo stato di Israele all'ex Unione Sovietica di Stalin e alla Germania di Hitler, scatenando la reazione dell’ex ambasciatore Ehud Gol, che lo definì “un ignorante e un antisemita guidato da un odio viscerale verso il popolo ebraico”. Intervistato dal Corriere della Sera qualche mese dopo, riferendosi al termine antisemitismo, disse che “è' ora di abbandonare questa parola al suo destino”.
“Abbiamo invitato un grande storico”, con queste parole l’assessore comunale Massimo Greco ha fatto da apripista all’intervento di Nolte. Ma non tutti possono trovarsi concordi.

Adam Smulevich
 
 
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  Diritti e bisogni dei nuovi cittadini

“Rispettate lo straniero, perché foste stranieri...». Così recita un importante insegnamento della tradizione ebraica. E' per questa ragione che oggi ci pare opportuno recuperare il messaggio del filosofo tedesco Hans Jonas: la responsabilità sul futuro delle giovani generazioni è centrale in un Paese che, nell'arco di pochi anni, vedrà modificata la sua identità sociale e culturale. La trasformazione socio-demografica in atto in Italia non ha precedenti. Al 31 dicembre 2008 (Istat, Bilancio demografico nazionale 2008) la popolazione italiana presenta un incremento di 425.778 unità (0,7%). Questa crescita è dovuta quasi esclusivamente alle migrazioni dall'estero, e gli stranieri sono circa 6,5 ogni 100 individui residenti. I bambini figli di immigrati sono il 12,7% di tutti i nati vivi, rispetto all'1,7% del 1995. I dati indicano con chiarezza l'inevitabile contrapposizione tra due bisogni diversi: la «salvaguardia dei diritti» dei cittadini a fronte di una società in evoluzione, e la «tutela dei diritti» dell'immigrato, del rifugiato, dello straniero. Scaturiscono, così, alcuni quesiti sui fondamenti della convivenza civile: quali devono essere le «regole» democratiche valide sia per gli indigeni sia per gli stranieri? Come definire un'identità nazionale necessariamente differenziata? Come evitare che la paura comprensibile venga tradotta in un'ostilità verso il diverso? I processi di individualizzazione dell'attuale fase storica non agevolano processi di accettazione e accoglienza. La precarizzazione del lavoro, che dà vita a una stratificazione sociale marcata, complica la situazione, mentre fenomeni di delinquenza e corruzione contribuiscono alla crescita di un clima di sfiducia. La paura della perdita del benessere faticosamente conquistato testimonia il rischio dell'esclusione sociale e la concomitanza tra l'aumento della disoccupazione e quello dell'immigrazione è una possibile scintifia di conflitti interetnici, in un Paese di emigranti che è rapidamente diventato Paese di immigrati. Tutto ci impone una definizione rigorosa della nozione di «cittadinanza» e un ragionamento sull'estensione dei diritti da attribuire anche ai non cittadini. E inoltre richiede interventi sul sistema educativo; nuove declinazioni dei principi di solidarietà verso i più deboli di qualunque provenienza o condizione; risposte ai problemi, sempre più urgenti, di natura etica. Nella storia occidentale, la genesi faticosa degli Stati nazionali ha posto le premesse del governo democratico della società civile. In questo processo è stata fondamentale l'ampia condivisione, malgrado le diversità, della dignità dell'individuo come valore fondamentale. Ciò non è sempre avvenuto e la costruzione delle nazioni moderne ha potuto prendere, nel corso del Novecento, anche la strada del totalitarismo. Il rischio è nuovamente presente, in forme naturalmente diverse dal passato. Esso può essere limitato da tutte quelle forme di aggregazione e organizzazione e da come queste verranno garantite rappresentate da partiti, sindacati, associazioni di base. E perché sia scongiurato occorre studiare il tema dell'inclusione nella cittadinanza e affrontare democraticamente il problema delle culture diverse. La laicità dello Stato assume, dunque, una nuova pregnanza di fronte alla pluraliri di fedi e sensibifità religiose o atee, e diventa un termometro di uguaglianza: i cittadini devono confrontarsi con usi e abitudini diverse, mentre il diritto deve misurarsi con una molteplicità di esigenze e compatibilità, nell'immediato e a lungo termine. La vicenda storica della piccola minoranza ebraica italiana può contribuire al dibattito pubblico su questi temi mostrando come anche dopo un percorso denso di di scriminazioni le diversità possano essere elemento d ricchezza e non fonte di esclusioni e conflitti.

Saul Meghnagi e Tobia Zevi, Il Corriere della Sera, 10 novembre 2009
 
 
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L'evento della giornata è l'incontro di Netanyahu con Obama definito "difficile" dal Messaggero e "gelido" da Repubblica. In realtà i giornali con queste definizioni esprimono non dei fatti qualsivoglia, ma solo la loro ideologia (e la scarsa deontologia professionale): l'incontro è iniziato infatti alle 19 di ieri, secondo l'ora americana, cioè alle 3 di notte italiane, e si è concluso parecchio dopo, quando le pagine dei giornali erano già "chiuse" da tempo.
Insomma, si tratta di "profezie" o piuttosto di propaganda e non di fatti. Inoltre dalla pagine web dei giornali perbene sappiamo che alla fine non c'è stata la solita conferenza stampa (checché ne dica una notizia anonima altrettanto confezionata della Stampa, che si inventa il dettaglio senz'altro non secondario che nel colloquio gli Stati Uniti avrebbero ribadito la loro contrarietà alle costruzioni nelle "colonie" e che "la Casa Bianca ha fornito quest'unica precisazione nel consueto briefing con i giornalisti", il quale però non ha avuto luogo).
In realtà è uscito solo questo comunicato, né "gelido" né "difficile": "The president reaffirmed our strong commitment to Israel's security, and discussed security cooperation on a range of issues," said the White House readout. "The president and prime minister also discussed Iran and how to move forward on Middle East peace." Sappiamo anche che metà del tempo dell'incontro si è svolto a quattr'occhi fra il premier israeliano e il presidente americano, e l'altra metà con tre consiglieri per parte: un incontro di lavoro. Lo stesso giuoco propagandistico vale per l'orario dell'incontro, di cui fino a ieri la stampa italiana sottolineava che fosse stato fissato all'ultimo minuto e così tardo da essere quasi insultante, perché cadeva dopo i telegiornali israeliani (così Il Messaggero e L'Unità) mentre oggi viene fuori che i palestinesi sarebbero furiosi perché l'orario serale è riservato agli incontri particolarmente calorosi... 
Difficile trarre notizie da una stampa così poco seria.
Un altro implicito esempio di scarsa serietà è l'elenco dei muri del pianeta che si ritrova (in occasione delle cronache sui festeggiamenti per la caduta di quello di Berlino sul Messaggero (Marco Guidi) e sul Sole  (Alberto Negri). Entrambi i giornali scoprono che il mondo è pieno di muri, che la barriera più lunga è stata fatta da un paese arabo (i 2700 del Marocco in mezzo al territorio occupato del Sahara occidentale, dove anche ieri un ragazzo ha perso una gamba per una mina), che ci sono muri a Cipro (eretto dai turchi), a Città del Messico, fra gli Stati Uniti e il Messico, insomma un po' dappertutto. In sé gli elenchi sono corretti e il moltiplicarsi delle barriere merita una riflessione accorata come quella che propone Fiamma Nirenstein sul Giornale;  ma quasi tutti i giornali se lo dimenticano tutti quando solo la barriera di sicurezza israeliana  è messa sotto accusa (ancora oggi in una notizia sull'Unità); una barriera che pure ha fatto diminuire radicalmente il terrorismo suicida e che rischia di diventare ancora più importante nel prossimo periodo se sono serie le minacce di riaccendere il terrorismo che i palestinesi ora esprimono apertamente.
Leggete qui un brano dell'articolo di De Giovannangeli sull'Unità: "Il rischio di una nuova ondata di violenze, se gli Stati Uniti non riusciranno a rilanciare il processo di pace israelo-palestinese, è reale. Questo è l'avvertimento di Nabil Abu Rudeina, portavoce del presidente dell'Anp. «La violenza - aggiunge Rudeina - riempirà il vuoto lasciato dal fallimento degli sforzi per rilanciare il processo di pace se l'amministrazione americana non si impegnerà a esercitare pressioni sul governo israeliano». «Se I' America - ha continuato - si mostrerà incapace di svolgere il ruolo che le compete, allora gli Usa e Israele saranno ritenuti responsabili delle conseguenze disastrose che ci saranno». Cioè: o fate come diciamo noi o ricominciamo ad ammazzare i civili. Avete visto una condanna da qualche parte di questo "pacifico" avvertimento, o ignobile ricatto, come lo chiamerei io? Qualche pacifista che si stracci le vesti? No, immagino. Nella rassegna almeno non lo trovate.
Altre notizie. Al Pitigliani è iniziato un festival del cinema israeliano, ne parlano Il Corriere e Il Manifesto nelle edizioni romane. A Torino si svolge la prima conferenza del Centro Primo Levi e Papuzzi per La Stampa intervista lo studioso inglese Robert Gordon che la tiene.
Infine "Il fatto quotidiano" (con un dossier di ben quattro articoli firmati Cugola, Gagliarducci, Citati, De Carolis) ma anche Il Secolo d'Italia e L'Unità in singolare coincidenza se la prendono con Daniela Santanché che in un dibattito televisivo aveva definito "poligamo e pedofilo" il profeta dell'Islam. Difficile negare che Maometto avesse sposato la sua ultima figlia quando lui era vecchio e lei aveva 9 anni; allora per contrastare le affermazioni della Santanché chi cita il film americano in lavorazione su Maometto, chi si affida al relativismo culturale, per cui le cose che non piacciono a noi una volta si facevano tranquillamente, chi rileva che il Corano parla bene di Gesù... Questo dibattito non ci appassiona, come non ci appassiona quello un po' isterico che si è svolto sul crocefisso, richiamato in alcuni dei pezzi. E però vale la pena di prendere nota, nel modo in cui questi articoli sono costruiti, di una crescente subordinazione culturale della sinistra e di pezzi della destra, che si vogliono "più moderni", all'islamismo.

Ugo Volli

 
 
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Israele, il capo di stato maggiore Eshkenazy avverte:                    “Lungo i confini di Stato regna una calma ingannevole”
Gerusalemme, 10 nov -
Gli Hezbollah con un arsenale di diverse decine di migliaia di razzi, alcuni dei quali con raggio di 300 chilometri, sono potenzialmente in grado di colpire le maggiori città israeliane. Ad affermarlo è stato il capo di stato maggiore israeliano Gaby Eshkenazy, in una relazione presentata alla commissione Esteri e Difesa della Knesset. Ma non finisce qui, anche Hamas, secondo quanto dichiarato da Eshkenazy, si sta riarmando intensamente e si sta preparando all'eventualità di un nuovo conflitto con Israele. Nei confini a Nord e a Sud di Israele regna una calma “ingannevole” per il capo di stato maggiore.
 
 
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