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    17 aprile 2009 - 23 Nisan 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  Roberto Colombo Roberto
Colombo,

rabbino 
Siamo nel periodo dell’Omer. Nella tradizione ebraica questi sono giorni di lutto per la morte degli alunni di Rabbì Akivà che durante la persecuzione romana non seppero trovare l’unità. Non è poi così lontano quel momento. Lunedì sera commemoreremo il Yom ha-Shoà. E’ una data infelice per molti aspetti. Uno di questi consiste nel fatto che nel calendario ebraico ci sono due diverse date in ricordo delle deportazioni: il 10 di Tevèt, voluto e celebrato dai religiosi, e il 27 di Nisàn, istituzionalizzato da Ben Gurion in ricordo della rivolta del Ghetto di Varsavia. Triste, molto triste è il fatto che noi ebrei non riusciamo a stare assieme nemmeno di fronte alla tragedia. 
Nelle imprese straordinarie bisogna lasciare al caso la soluzione di molte incognite. L'essere sempre alle prese di molteplici soluzioni crea un falso ottimismo che finisce nell'immobilismo.  Vittorio Dan
Segre,

pensionato
Vittorio Dan Segre  
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  Maariv sede Pagine d'Israele 2 – Maariv
Mostri sacri e scarpe che volano


Nel novembre del 1947 il giornalista Azriel Carlebach è a New York per seguire il dibattito alle Nazioni Unite sul futuro della Palestina; è un momento storico di assoluta importanza e Azriel scrive senza sosta, inviando numerosi e lunghi telegrammi alla redazione del quotidiano di Tel Aviv Yedihot Aharonot. Il giornalista contrassegna i suoi articoli come urgenti in modo da rendere più veloce, seppur a un prezzo superiore, la trasmissione dei pezzi a Tel Aviv. Yehuda Moses, editore del giornale, inviperito per l’aumento dei costi, telegrafa a Carlebach perché la smetta di trasmettere in via urgente. In definitiva è lui a doversi far carico delle spese.
E’ la goccia che fa traboccare il vaso. Carlebach non solo sente attaccata la sua autorevolezza, essendo da una decina d’anni il direttore di Yedihot Aharonot, ma anche la sua professionalità. Boccone troppo amaro da mandar giù per un giornalista di grande levatura.

Azriel Carlebach nel 1942 In Europa Azriel (ritratto nell'immagine a fianco) si era fatto un nome grazie alla collaborazione con Haynt (il quotidiano yiddish pubblicato a Varsavia dal 1906 al 1939), promuovendo il pensiero sionista e criticando aspramente i crimini sia del comunismo sovietico sia del nazismo. Per tutta risposta i Giovani Comunisti di Amburgo avevano cercato di assassinarlo sparandogli, mentre Goebbels, appena il nazismo sale al potere, lo fa mettere in galera. Nonostante queste esperienze traumatiche, uscito di prigione Carlebach decide di travestirsi da membro della SA e grazie all’uniforme verifica di persona l’espandersi del nazismo in Germania, descrivendo quotidianamente la sua esperienza attraverso articoli pubblicati con lo pseudonimo di Levi Gotthelf  da Haynt. Assiste al rogo di libri della Bebelplatz e riconosce fra gli altri anche i suoi scritti. E' il momento di lasciare la Germania. Così Carlebach si rifugia in Polonia, per poi dirigersi verso Londra, da dove attacca la politica antisemita del governo austriaco di Schuschnigg e critica i non sionisti che vogliono rimanere in Europa, accusandoli di non comprendere l’evoluzione degli avvenimenti.
Ultima tappa di questo giornalista fuori dal comune è Israele, dove diviene direttore di Yedihot Aharonot  fino allo scontro con Moses. Il 14 febbraio del 1948, quando ormai manca poco alla proclamazione d'Indipendenza, Carlebach invia un ultimatum: o si cambia sistema di lavoro oppure la collaborazione finisce. Molti elementi dello staff appoggiano il direttore ribelle, convinti della necessità di riorganizzare il giornale anche con nuovi investimenti.
La risposta non si fa attendere, Moses informa la sera stessa Carlebach che le sue condizioni sono inaccettabili. I ribelli allora si organizzano e in un attimo svuotano quasi del tutto la redazione del giornale, organizzandosi in poche ore per pubblicarne uno nuovo. Maariv (in alto un'immagine dell'attuale sede) esce a tempo di record, un solo giorno dopo il grande abbandono. Fra lo stupore generale, il 15 febbraio gli israeliani trovano in edicola sia Yedihot Aharonot, uscito quasi miracolosamente data la carenza d’organico, sia un certo Yedihot Maariv, il cui direttore è sempre Carlebach, lo stesso che i lettori avevano apprezzato per anni alla guida del giornale di Moses.
Iniziata sessant’anni fa, la rivalità fra i due quotidiani non si è mai estinta, assumendo in tempi recenti i connotati di una spy-story degna dei film di James Bond, con corruzione, intercettazioni telefoniche e addirittura un presunto tentativo di omicidio. Queste sono alcune delle accuse lanciate da Ofer Nimrodi, attuale editore di Maariv, protagonista di una guerra senza esclusione di colpi con il rivale Arnon Moses di Yedihot Aharonot.
Nei primi anni Novanta, Nimrodi assume due investigatori privati, ex agenti dei servizi segreti, con il compito di spiare la concorrenza per ottenere informazioni sulle loro fonti e conoscere in anticipo le prime pagine. Moses non è da meno e crea una fitta rete di intercettazioni in modo da carpire i segreti dell’avversario. Durante le indagini vengono trovate  microcamere installate nelle redazioni dei due quotidiani e collocate in modo da controllare l’attività di giornalisti e redattori. Gli inquirenti sospettano che Nimrodi abbia addirittura pensato di eliminare i vertici delle testate concorrenti.
Coincidenze o meno, il fatto è che nel periodo dello spionaggio, Maariv e Yedihot Aharonot escono pressappoco con gli stessi titoli in prima pagina; non solo, adottano entrambi uno stile sensazionalista, riempiendo i quotidiani di enormi foto a colori e di scoop che non sempre risultano fondati.
Nel 1994 vengono recapitati a Nimrodi sedici avvisi di garanzia. Le accuse vanno da frode e falsificazione di documenti fino a ostruzione alla giustizia e intimidazione di testimoni. Dopo sei anni viene emessa la sentenza che condanna il direttore a venticinque mesi di reclusione, di questi, dieci già scontati durante il processo e i restanti quindici convertiti per buona condotta in cinque mesi di lavoro nei servizi sociali.
La storia di Maariv si caratterizza per un passato turbolento e un presente, se possibile, ancor più irrequieto, con personaggi forti e dotati di una professionalità indiscutibile, come Carlebach, e figure spiccate e colorite, come Nimrodi. A quest’ultimo tipo appartiene Amnon Dankner, alla guida del giornale dal 2001 al 2007 e personaggio quantomeno pittoresco. Molti dei suoi collaboratori si sono sentiti chiedere “Perché non sei intelligente quanto me?” o hanno dovuto sottostare al suo rito d’iniziazione: Dankner si toglieva la scarpa e la lanciava verso la porta del suo ufficio, mentre il collega di turno doveva cercare di pararla. Altro passatempo del vulcanico direttore era il tiro a canestro: cercare di fare centro, sempre con la scarpa, nel cestino della segretaria. Si dice che alla notizia delle dimissioni di Dankner, nei corridoi del giornale vi siano state scene di giubilo. Alcuni redattori hanno brindato.
Oltre a essere un inguaribile narcisista, Dankner si è rivelato un uomo pieno di iniziativa. Sin dall’inizio della sua avventura al comando di Maariv, era convinto di poter migliorare la qualità del giornale e riuscire a superare i rivali di Yedioh Ahoronot. Ha alle spalle una carriera giornalistica di assoluto rispetto, avendo scritto su Haaretz, Hadashot e Davar, di cui è stato corrispondente a Washington, per poi approdare negli anni Novanta al Maariv, di cui ha preso la guida nel 2001. In un’intervista Dankner spiega di essersi avvicinato al giornalismo per una passione innata di conoscere i fatti, di svelare la realtà, ma ammette di essere anche affascinato dalla fama e l’influenza che il giornalismo può donare.
Considerato molto vicino alla famiglia Nimrodi che controlla il giornale, Dankner dimostrò il suo legame con gli editori quando, non ancora direttore, scrisse un violento articolo contro i giudici del processo per lo scandalo delle intercettazioni, difendendo il suo editore. In quel periodo risulta, da un’intercettazione della polizia, che Jakob Nimrodi, padre di Ofer, ordinò all’allora direttore, Yaakov Erez, di lasciare lo spazio più grande e in vista a un articolo di Dackner. Erez fece notare all’editore che quel giorno vi erano stati alcuni attacchi terroristici, ma la risposta è stata: “Al diavolo gli attentati”.
In particolare, Dankner si permette il lusso di prendere di mira il pubblico ministero che aveva seguito il caso Nimrodi, Edna Arbel, delegittimando la sua nomina a membro della Corte suprema e apostrofandola come “una donna mediocre, manipolativa, brutale, per la quale ogni sussurro di critiche interne appare come un'orgia di eresia e che vede ogni parere contrario come un crimine terribile.”
Un ritratto di Dankner emerge dalle parole di Gal Ochovsky, giornalista per dieci anni di Maariv, in un’intervista rilasciata al concorrente Haaretz: “Quando stava per diventare direttore, quasi impazzì, come un bambino davanti a un negozio di giocattoli. C’è qualcosa di infantile in lui che apparentemente non si può controllare”. Alla domanda su cosa abbia fatto Dankner per Maariv, la risposta di Ochovsky è secca: “Ha distrutto il giornale”.
Sta di fatto che nonostante la creatività e la forza del carattere di Dankner, il giornale fra il 2001 e il 2006 ha subito un calo del 20% nelle vendite, con una perdita annua di dieci milioni di shekels (circa 1.8 milioni di euro). Il distacco con l'eterno rivale Yedihot Aharonot è aumentato a favore di quest’ultimo. Non si possono negare le responsabilità di Dankner, ma è pur vero che il giornale continua a navigare in acque difficili anche dopo il suo abbandono, con un forte taglio nell’ultimo periodo a personale e stipendi. La sensazione è che i nuovi direttori, Doron Galezer e Ruth Yuval, abbiano fra le mani un caso difficile. A riprova della complessità della situazione si possono citare i tentativi della famiglia Nimrodi di cedere le proprie quote del giornale.
La nave, insomma, fa acqua, ma l’equipaggio continua a lavorare sodo. Infatti Maariv rimane un ottimo prodotto e un giornale in grado di offrire un buon servizio ai lettori. 
Fino agli anni Ottanta la testata era leader indiscusso fra i quotidiani israeliani e alcuni fra i maggiori giornalisti firmavano su Maariv. Fra i numerosissimi nomi prestigiosi, impossibile non ricordare Ephraim Kishon, il grande scrittore satirico che lavorò per Maariv dal 1952 fino agli anni Ottanta. Kishon amava dire “Non sono uno scrittore, sono semplicemente un umorista. Solo quando sei morto diventi uno scrittore”. Ungherese di nascita, il suo vero nome era Ferenc Hofmann, per avere un cognome meno borghese, lo cambiò in Kishont (Kis in ungherese è un diminutivo, mentre Hont è un cognome tipico in Ungheria). Nel 1944 era stato deportato dai nazisti al campo di lavoro di Jolsva, in Slovacchia, da cui riuscì a evadere con un amico. Durante la prigionia si salvò anche grazie alla sua abilità negli scacchi, infatti il comandante del campo lo scelse come suo avversario di gioco. Più tardi Kishon ricorderà in redazione quell’esperienza con la sottile ironia che lo contraddistingue: “Ha fatto un errore lasciando vivo un autore satirico”.
Finita la guerra Kishon torna in Ungheria, ma insofferente del regime comunista decide di trasferirsi in Israele. All’arrivo, un impiegato dell’immigrazione gli cambia nuovamente il nome, omettendo l'ultima lettera del cognome e trasformando Ferenc in Ephraim. Il giovane Kishon comincia a lavorare in un Kibbutz vicino a Haifa e  scrive articoli su un quotidiano per immigrati ungheresi; ma ben presto decide di imparare l’ebraico. Dopo un anno di studio, padroneggia talmente bene la lingua da ottenere uno spazio su Maariv, su cui scrive con lo pseudonimo di Chad Gadja. Alcuni suoi personaggi esilaranti diventano indimenticabili, come Schtuks, l’idraulico ritardatario, e Gingi, lo scettico israeliano la cui inguaribile disattenzione provoca disastri.
Ben presto Kishon raggiunge la fama internazionale: nel 1959 pubblica “Si volti, signora Lot”, eletto dal New York Times come miglior libro e conquista paragoni illustri con Mark Twain e Shalom Aleichem.
Autore poliedrico, Kishon si dedica anche al teatro, creando una propria compagnia e al cinema. Nel 1964 ottiene particolare successo con il film Sallah Shabati (gioco di parole in ebraico che evoca la frase “Sliha shebati” – “Scusate se sono venuto”), storia dell’immigrato Sallah, ebreo yemenita, che arrivato in Israele deve combattere la diffidenza e i pregiudizi per cercare di assimilarsi nel giovane Paese, guidato dagli ebrei d’origine europea. Lo spettacolo mostra attraverso uno sguardo divertente e sferzante i vizi e le virtù della società israeliana, smontando gli stereotipi spesso attribuiti agli ebrei mediterranei: la pigrizia, l’ignoranza, la chiassosità o la furbizia.
Kishon ha scritto opere che sono state tradotte in tutto il mondo e particolare successo hanno avuto in Germania. A questo riguardo il figlio Rafi ha ricordato in un’intervista alla radio israeliana che lo scrittore considerava una grande soddisfazione che i figli dei suoi aguzzini fossero suoi ammiratori.
Altra storica firma di Maariv è stata quella di Tommy Lapid. Il giornalista è stato definito dell’inglese Indipendent “il campione del laicismo”. Nato in Serbia nel 1931 da genitori ungheresi, Tomislav Lampel aveva visto la Gestapo portare via suo padre, poi ucciso a Mauthausen. Assieme alla madre aveva cercato rifugio a Budapest, dove si era salvato dai rastrellamenti dei fascisti ungheresi, che arrestavano gli ebrei per poi fucilarli sulle sponde del Danubio, nascondendosi in un bagno pubblico. Lapid dirà: “Tutto ciò che ho fatto nella mia vita ha origine dall’esperienza della Shoà”.
Emigrato in Israele nel 1948, Lapid viene subito arruolato come meccanico nell’esercito, per poi laurearsi in legge all’Università di Tel Aviv. Come per Kishon, la sua esperienza giornalistica inizia con un giornale ungherese, Uj Kelet, ma la svolta arriva quando Lapid diviene l’assistente personale di Carlebach, editore del neonato Maariv. Da quel momento acquista il suo nome ebraico, Yosef  Lapid, e passo dopo passo diviene un pilastro insostituibile del giornale, scrivendo articoli sulle questioni politiche e sociali più spinose.
La sua più grande battaglia è stata la laicizzazione dello Stato di Israele, progetto portato avanti anche in campo politico con l’ingresso nel 1990 nel partito Shinui (Cambiamento), con cui raggiunge nel 2003 un significativo successo elettorale, ottenendo 15 seggi alla Knesset. I principali obbiettivi erano il servizio militare per tutti, compresi i giovani ultra-ortodossi esentati per gli studi religiosi; il matrimonio civile, il trasporto pubblico di sabato; l'abrogazione delle indennità per le famiglie numerose e l'abolizione del Ministero degli Affari Religiosi.
Scomparso nel 2008, Lapid è stato ricordato da Dankner, suo grande amico, con queste parole: “Aveva un grande fame di vita. Era un uomo molto colto, con un orizzonte di comprensione molto ampio. Un uomo che si rinnovava ogni giorno. Lascerà un grande vuoto nel mio cuore, che non può essere riempito”.
Fra gli alti e bassi che caratterizzano tutti i grandi quotidiani israeliani, non si può dunque ricordare Maariv solo per le vicissitudini giudiziarie dell’editore o per un eccentrico direttore, ma bisogna rendere merito a un giornale che ha contribuito a rendere la società israeliana più consapevole di se stessa. Interrogato recentemente sul suo giornale, Ofer Nimrodi ha detto: “Maariv è un giornale che si è sempre battuto per questo Paese e contro la corruzione. Certo, sono stati commessi errori, ma solo chi resta inerte, non commette errori”.

Daniel Reichel 

 
 
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  Alfredo Mordechai RabelloShim'òn il giusto, Rabban Shim'òn ben Gamliel
e Rabbì Josef Caro, i principi su cui il mondo poggia


Siamo giunti ai giorni dell'Omer e con loro alla lettura delle Massime dei Padri, o Pirké Avot, nei Shabbatot fra Pesach e Shavu'ot, come preparazione spirituale-morale al consesso davanti al monte Sinai per la promulgazione del Decalogo (ma'amad har Sinai).
Potranno essere interessanti alcune osservazioni di Robert Cover (1944-1986, professore di diritto alla Yale Law School), tratte dal suo Nomos and Narrative, Haravard Law Review, 1983; è fra l'altro caratteristico di Cover l'uso della tradizione giuridica ebraica messa accanto al diritto statunitense; il lettore italiano potrà apprezzare il pensiero di Robert Cover anche grazie alla traduzione italiana Nomos e Narrazione. Una concezione ebraica del diritto curata da M. Goldoni e pubblicata da Giappichelli (2008, pp. 27 ss.).
"Shim'òn il giusto soleva dire: "Su tre cose il mondo poggia: sulla Torà, sul lavoro (il servizio nel Santuario), sulle opere buone" (Avot 1,2). Il "mondo" di cui parla Shim'òn il giusto è, secondo Cover, il nomos, l'universo normativo (per Rav Zvi Yehuda Kook si tratta del mondo culturale: siamo vicini…). Tre secoli più tardi, oramai dopo la distruzione del Santuario di Jerushalaim, Rabban Shim'òn ben Gamliel userà dire che "sopra tre cose il mondo continua a esistere: giustizia, verità e pace" (Avot 1,18).
All'inizio della parte "Choshen Mishpat" del suo Bet Yosef, il monumentale commento al Tur, Rabbì Josef Caro ci dà questa interpretazione (riportata da Cover):
"Questo perchè Shim'òn il giusto scriveva nel contesto della sua generazione, quando il Tempio era ancora intatto, mentre Rabban Shim'òn ben Gamliel scriveva nel contesto della sua generazione, dopo la distruzione di Gerusalemme. Rabban Shim'òn ben Gamliel insegnava che anche se il Tempio non esisteva più, così come non vi erano più servizi di sacrifici, e anche se il fardello dell'esilio impediva di impegnarsi come si deve nello studio e insegnamento della Torà e nel compimento delle opere buone, nondimeno l'universo normativo continuava a esistere in virtù di queste tre cose giustizia, verità e pace che sono molto simili alle prime tre Torà, lavoro, opere buone. In effetti c'è differenza fra la (forza necessaria per la) preservazione di ciò che già esiste e la (forza necessaria per la) realizzazione iniziale di ciò che in precedenza non esisteva. Così in questo caso sarebbe stato impossibile creare il mondo sui tre principii di Rabban Shim'òn ben Gamliel. Ma dopo che il mondo è stato creato sui tre pilastri di Shim'òn il giusto esso può continuare a esistere sulle tre basi di Rabban Shim'òn ben Gamliel".
Fino a qui parte delle osservazioni di Rabbì Yosef Caro, che hanno ispirato le osservazioni di Cover: "Il punto di vista sviluppato da Caro è qui rilevante. Le virtù universaliste che noi siamo giunti a identificare con il liberalismo moderno, i grandi principi del nostro diritto, sono forze essensialmente deboli di mantenimento del sistema. Esse sono virtù che si giustificano in base al bisogno di assicurare la coesistenza  di mondi contraddistinti da forti significati normativi. I sistemi di vita normativa che queste virtù conservano sono i prodotti di forze potenti: modelli specifici di una cultura dal significato particolaristico. Queste forse potenti - per Caro la Torah, il culto e gli atti di generosità – creano i  mondi normativi nei quali il diritto è anzitutto – e in maniera predominante - un sistema di significati piuttosto che un sistema di imposizione della forza. Il commento di Caro e le massime sulle quali si basa suggeriscono due ideal-tipi per la combinazione di un corpus…Il primo di questi modelli…quello creatore di un mondo…; il secondo modello ideal-tipico, la cui piena espressione si trova nella comunità civile, tende alla conservazione del mondo… Il mantenimento di un mondo non è un problema minore rispetto alla sua creazione e non richiede certo meno energia…".
Come a dire l'insegnamento che sembra particolare, si fonda sul particolare per arrivare all'universale: il mondo. Nostro compito è cercare di conservarlo e di migliorarlo tenendo d'occhio le sue basi.

Alfredo Mordechai Rabello, giurista, Università Ebraica di Gerusalemme
 
 
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Se a dominare, ancora una volta, sono gli articoli sulla tragedia del terremoto in Abruzzo, e sulle inesorabili polemiche su quali siano i cespiti e i patrimoni che dovranno essere fatti oggetto di prelievo per finanziare la ricostruzione di ciò che è stato distrutto dalle scosse sismiche (così, tra gli altri, Andrea Bassi su MF, Roberto Petrini su Repubblica e Marco Rogari su il Sole 24 Ore), il panorama delle altre notizie si presenta come prevedibile se non, forse, ai limiti del trascurabile. E tuttavia, a ben guardare, di temi ne vengono fuori comunque. Diciamo allora, e da subito, che a volte ritornano. O forse non se ne sono mai andati. Ci riferiamo ai fantasmi del passato che aleggiano insieme a noi, al nostro presente, inquietanti compagni di una quotidianità che si vorrebbe al riparo dai trascorsi e che invece con questi ultimi devi fare costantemente i conti. Due notizie, di per sé molto diverse, in una giornata che, come affermavamo, parrebbe non offrire particolari spunti di riflessione sfogliando la fascetta dei giornali, demandano invece alla persistenza di quel che è stato. Quasi a modo di aneddoto, ma la forma in sé non deve ingannare più di tanto, il Manifesto ci ricorda che i link ad Adolf Hitler presenti su Facebook, il social network virtuale più diffuso, soprattutto fra i giovani, sono tantissimi. Una dozzina di pagine almeno che, in soldoni, vuol dire almeno un centinaio di connessioni permanenti, perlopiù indirizzate a gruppi che si richiamano, direttamente o indirettamente, al capo del nazismo. Che il web sia un moltiplicatore di tante cose, anche e soprattutto di quelle non propriamente più commendevoli, è fatto da tempo risaputo. Non è un caso che i gestori di Facebook, dinanzi alle critiche con le quali molti navigatori di internet gli contestano la “porosità” ideologica (ossia, il fatto di essere così pervasivo al punto di accogliere acriticamente anche chi professa e diffonde le “idee” peggiori) si siano difesi invocando la “libertà di opinione”, una sorta di passe-partout che azzera ogni discussione di merito sui contenuti e sulla loro fruizione da parte di un’ampia platea di utenti. Poiché quel che inquieta non è il fatto che vi sia chi faccia l’apologia del nazismo ma che essa sia lasciata nelle condizioni di manifestarsi (ed essere diffusa) tra quanti hanno pochi se non nessun strumento per affrontarla con coscienza critica. Internet, da questo punto di vista, è un’arma a doppio taglio. Nel proporre una congerie incredibilmente dilatata e non selezionata di temi e argomenti, messi tutti insieme, senza stabilire scale di rilevanza e di priorità, rischia di influenzare il pensiero di chi per formazione e sensibilità non ha la forza e la capacità di capire fino in fondo che cosa essi portino con sé. D’altro canto, se il mondo virtuale si alimenta di questi spettri, che prendono corpo tra le pagine di un network di parole e immagini, nel mondo “reale” c’è chi sa essere non da meno. 
Fiamma Nirenstein, su le pagine de il Giornale, ci tiene informati sull’evoluzione della seconda edizione della Conferenza delle Nazioni Unite contro il razzismo, sinistramente chiamata “Durban II”. Uno scherzo del destino, che sembra anche essere un contrappasso della storia, farà sì che essa apra i battenti in quello che è per Israele e per gli ebrei tutti lo Yom ha-Shoah. Malgrado gli interventi e le pressioni esercitate dalle diplomazia internazionale, a partire da quella italiana, i documenti preparatori, sia pure smussati e depurati di una parte delle peggiori asperità anti-israeliane, così come le ipotesi di incontri e dibattiti demandano a quel gioco che già si era visto nel 2001, quando un gruppo di paesi arabi (e non solo) insieme a una nutrita delegazione di Organizzazioni non governative si erano attivamente esercitati per trasformare la discussione in una sorta di festival dell’antisionismo e dell’antisemitismo. Preoccupa, in tal senso, il permanere non solo di ripetuti accenni contro Israele, ma anche i pelosi richiami alla necessità della difesa delle religioni da ogni forma di critica (la qual cosa attribuirebbe ad esse, ed in particolare a quella islamica, una sorta di spazio di extra-territorialità da ogni genere di approccio problematizzante, leggendo in automatico qualsiasi tentativo di contestarne certi limiti morali come di comportamento al pari di una ingiuria), l’enfatico e ambiguo invito a onorare le “culture diverse”, anche qui in chiave decontestualizzata, tanto più quando queste contengono molti elementi di pericolosa legittimazione di atteggiamenti persecutori verso le minoranze e così via. Insomma, ancora una volta sembra fare capolino, sotto l’invito al relativismo etico per cui tutte le culture si equivalgono e ogni cosa va sopportata nel nome della equiparazione assoluta di storie e condotte, il tentativo egemonico di una parte del mondo islamico che nel nome della rappresentanza degli oppressi fa propri atteggiamenti oppressivi. La battaglia contro Israele, da questo punto di vista, è solo la punta di un iceberg, volendo in realtà colpire le voci laiche e le istanze liberali, le une e le altre viste da molti paesi musulmani come fumo nei propri occhi. Della stessa Fiamma Nirenstein segnaliamo poi l’abituale articolo di fondo su Panorama, dove ci parla della lotta interna al mondo arabo-musulmano che vede nell’Egitto di Hosni Mubarak l’obiettivo privilegiato dai fondamentalisti. Il rovesciamento del regime cairota sarebbe per questi il migliore obiettivo che potrebbero raggiungere negli anni a venire se si dovesse allentare la vigilanza e la lotta nei loro confronti. Qualora il paese, che da trent’anni è garante degli equilibri di pace di Camp David, dovesse passare sotto un governo estremista le prospettive di una guerra, non solo contro Israele, si farebbero pressoché certe. 
Detto questo, poiché ci occupiamo di informazione, facendola non meno che interessandoci alla sua qualità, segnaliamo poi l’articolo di Erica Orsini su il Giornale dove si racconta di come la Bbc, modello insuperato di costante sforzo di imparzialità, malgrado alcune trascorse cadute di stile, abbia censurato il suo corrispondente dal Medio Oriente, Jeremy Bowen, per alcune incaute affermazioni contenute in un suo recente articolo, ritenuto dal grande network troppo sbilanciato e privo di quei necessari supporti di riscontro che tradizionalmente vengono richiesti a chi si lancia in giudizi di valore. In realtà a Bowen non vengono contestati intollerabili difetti di valutazione ma un atteggiamento implicitamente troppo partigiano, ovvero eccessivamente sensibile nei confronti di una delle parti in campo, i palestinesi, tale da pregiudicarne la serenità nel continuare a vagliare il difficile intrico di posizioni, protagonisti ed eventi che si dipana quotidianamente nello scenario mediorientale. A noi pare una querelle in punta di penna, che per i suoi contenuti quasi ci fa sorridere, abituati come siamo alle deliberate e declamate faziosità di campo. A tale riguardo si veda l’articolo siglato M. G. su Libero di oggi, dove si riprendono i termini di vecchie ma sempre rinnovate contrapposizioni, quelle tra una satira che vuole fare politica e una politica che spesso da di sé una qualche, se non di più, immagine satirica. Come diceva qualcuno, qualche lustro fa: “scusateci ma questa non è la Bbc”.

Claudio Vercelli

 
 
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L'inviato degli Stati Uniti in Medio Oriente                                        
e l'incontro con il premier israeliano
Gerusalemme, 17 apr -
“Israele si aspetta che i palestinesi riconoscano prima di tutto Israele come Stato ebraico, prima ancora di parlare di due Stati per due popoli” così, secondo fonti informate, il premier israeliano Benyamin Netanyahu avrebbe replicato alla richiesta di chiarimenti voluta dall'inviato degli Stati Uniti, George Mitchell, sulla posizione del nuovo governo israeliano in merito alla ripresa dei negoziati con i palestinesi e con la Siria. Prima dell'incontro con Netanyahu Mitchell aveva incontrato il Presidente Shimon Peres ed era stato ricevuto dal ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. Mitchell aveva, nell'incontro avuto con il Presidente israeliano, confermato l'impegno degli Stati Uniti alla sicurezza di Israele e alla soluzione del conflitto con i palestinesi, secondo la formula “due Stati, due popoli”.  
 
 
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Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste, in redazione Daniela Gross.
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