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L'Unione informa
 
    25 marzo 2009 - 29 Adar 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Alfonso Arbib, rabbino Alfonso
Arbib,

rabbino capo
di Milano
La parashà di Vayakhèl che è immediatamente successiva e quella del vitello d’oro comincia con la riunione del popolo da parte di Moshè e con la mitzvà dello shabbat. Anche nella parashà del vitello d’oro abbiamo visto un popolo unito nel portare le offerte d’oro per la costruzione del vitello. Secondo Shmuel Bornstein di Sochachev la prospettiva di riunire il popolo è ciò che induce Aharòn a collaborare per la costruzione del vitello. Spera di riunire il popolo, seppure intorno a un obiettivo sbagliato, e successivamente di purificarne le intenzioni (il fuoco in cui viene gettato l’oro rappresenterebbe simbolicamente questo tentativo di purificazione). Ma il tentativo non riesce e viene fuori il vitello. Anche Moshè, all’inizio della parashà di Vayakhèl, si propone l’obiettivo di riunire il popolo. Ma lo fa attraverso lo shabbat che è un elemento catalizzatore che non ha bisogno di ulteriori purificazioni.
La 13° Avenue a Brooklyn è il cuore commerciale del moderno shtetl di Boro Park. E' uno dei pochi luoghi dove i hassidim dei diversi gruppi si mischiano fra loro, per acquistare libri o mangiare alle tavole calde. Una di queste, molto gettonata per lo schwarma, alcuni giorni fa ha servito hot dog non kosher. Erano identici in tutto a quelli kosher tranne il fatto di essere un po' più lunghi. L'errore nell'acquisto era stato fatto da un inserviente asiatico, ma né il mashgiach né il titolare del negozio né decine di avventori  se ne erano accorti. Poi è entrato un hassid molto anziano, che mangia in quel posto da qualche anno solo perché gli hot dog in vendita entrano perfettamente in un tipo di pane particolare. Si è accorto subito della differenza. Ed è scoppiato il putiferio. Il proprietario ha evitato a stento di essere travolto. Si è parlato di scomunica per la tavola calda. Al momento il locale è chiuso a tempo indeterminato. L'unico punto di incontro fra avventori infuriati e titolare danneggiato è stato nel rendere omaggio alla memoria visiva dell'anziano hassid.  Maurizio
Molinari,

giornalista
Maurizio Molinari  
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  Amos Shocken Pagine d'Israele 1 – Haaretz
Il mostro sacro con il debole della provocazione


Sul più noto, il più antico, il più controverso e secondo molti nonostante tutto il più autorevole quotidiano israeliano si è detto di tutto. Ma la definizione di Haaretz che probabilmente è destinata a passare alla storia l'ha coniata il padre del Likud Menahem Begin. Interrogato su quale sia la linea politica del giornale di riferimento della classe dirigente, l'allora primo ministro liquidò la questione con poche parole: “L’ultimo governo appoggiato da Haaretz è stato il Mandato britannico sulla Palestina”.
Primo quotidiano a essere pubblicato in Israele, Haaretz è generalmente, ma non da tutti, riconosciuto per la sua indipendenza e per il suo prestigio, e annovera fra i suoi lettori molta parte degli intellettuali israeliani e l'élite economica e politica. Il giornale è molto letto anche all’estero, soprattutto nella sua edizione in lingua inglese realizzata in collaborazione con il gruppo New York Times e distribuita assieme all'International Herald Tribune, nella versione settimanale dedicata agli abbonati in tutto il mondo e grazie al suo noto sito Internet.
Nonostante la tiratura sia ampiamente inferiore ai due maggiori concorrenti, Yedihot Aharonot e Ma’ariv, il quotidiano esercita un’indiscussa influenza sull’opinione pubblica e i suoi editoriali vengono letti con attenzione dalle classi dirigenti, dai politici e dagli ambienti più colti.
D’altra parte è innegabile che Haartez sia un giornale di nicchia, è sì una voce forte nel panorama informativo israeliano, ma non rappresenta l'orientamento dell'opinione pubblica, rema controcorrente e lo dimostrano i risultati delle ultime elezioni, non certo favorevoli allo schieramento progressista.
Già dal nome, “Il Paese” (nel senso di Terra di Israele), si comprende l’inscindibile e complesso legame che intercorre fra la storia dello Stato ebraico e quella del quotidiano, sin dalla sua origine, nel 1919, Haaretz criticò il conservatorismo dei partiti e dei maggiori esponenti politici, costituendo, peraltro, un’autorevole voce per la risoluzione pacifica della questione mediorientale.
Christoph Schult, giornalista del celebre settimanale tedesco Der Spiegel, racconta lo stupore di scoprire all’ingresso del quartier generale del quotidiano israeliano, un’istallazione raffigurante la carcassa di un animale riprodotto con elementi rossi per i muscoli e gialli per l’interno. Mentre il giornalista contemplava la scultura, gli si è avvicinato l’usciere spiegando: “è come la terra di d’Israele, bella fuori, martoriata dentro”.
Durante i suoi novant’anni di vita, Haaretz ha cercato di portare in superficie le ferite d’Israele, di mettere in risalto le difficoltà e le contraddizioni del proprio Paese, a volte in modo talmente radicale da essere considerato sovversivo e sleale dalla maggioranza dell’opinione pubblica. Per fare un esempio recente, basti pensare alla posizione presa di alcuni giornalisti che hanno accusato il governo israeliano di perpetrare ai danni della popolazione palestinese una segregazione simile a quella che caratterizzò il Sud Africa.
Nonostante l’impopolarità per alcune prese di posizione, il giornale non ha mai cambiato la sua linea, improntata sui principi di un'estrema libertà d'espressione e di attenzione nei confronti dei diritti civili. Uno spirito critico, talvolta anche ipercritico, ereditato dai padri fondatori, un gruppo di sionisti di origine russa. Ma è con l’arrivo della famiglia Schocken, alla fine degli anni Trenta, durante il Mandato britannico in Palestina, che prende avvio un’era nuova. Il giornale acquista un riconoscimento internazionale per il valore e l’autorevolezza dei suoi collaboratori, dei suoi articoli e reportage.
L’importanza della famiglia Schocken non deriva solo dalla creazione di un impero editoriale conosciuto in tutto il mondo: Salman, capostipite della famiglia, è stato uno dei maggiori promotori della cultura ebraica, in particolare negli Stati Uniti. Divoratore di libri sin da ragazzino, Salman ha una sorta di rivelazione leggendo La civiltà del Rinascimento in Italia di Burckhardt e decide di dare origine ad un “Rinascimento Ebraico”, diventare una sorta di Lorenzo De Medici della cultura ebraica.
Primo passo verso la realizzazione del progetto è  la creazione della catena di librerie Schocken in Germania, ma l’avvento del nazismo sconvolge i piani del giovane Salman, che decide di spostarsi nel 1934 in Palestina, portando con sé la famiglia e una collezione di 30 mila volumi di inestimabile valore, fra cui un documento sulla Teoria della Relatività scritto a mano dallo stesso Einstein.
Haaretz nel frattempo inizia ad affermarsi nei circoli benestanti ed intellettuali del Paese, contando sulla collaborazione di illustri personaggi come Ze’ev Jabotinsky, padre del Revisionismo sionista, e Ahad Ha'am (Asher Hirsch Ginsberg), promotore dell’idea della creazione di uno Stato ebraico come centro culturale per l’ebraismo mondiale; un Paese basato sull’uguaglianza di tutti i suoi cittadini.
Il giornale si rivela un ottimo veicolo per la diffusione delle idee umaniste di Schocken che lo acquista nel 1937, ponendovi come redattore  il figlio, Gershom. La realtà è però ben diversa dalle visioni utopistiche di Schocken, che deve confrontarsi con il pragmatismo del sionismo nazionalista. Per trovare nuovo slancio, Salman decide di trasferirsi in America, rinunciando a parte dei suoi ideali giovanili. Uomo altero e testardo, il mecenate tedesco continua nella sua battaglia personale per la diffusione dei grandi classici della letteratura, avendo il merito di pubblicare per la prima volta negli Stati Uniti gli scritti di Kafka e di finanziare il futuro premio nobel Samuel Yosef Agnon. D’altra parte cassa senza tanti complimenti il lavoro di  Eliot, entrando in conflitto con una sua collaboratrice, Hannah Arendt che lo definisce un dittatore “insopportabilmente inetto”.

Come il padre, Gershom Schocken, diventato a soli ventiquattro anni direttore del giornale, dimostra ben presto una spiccata capacità imprenditoriale ma, a differenza del genitore, non è condizionato da una visione idealistica della realtà ed è meno radicato al passato. Nei cinquant’anni in cui ha tenuto le redini del giornale, Gershom si è distino per le sue battaglie per la liberalizzazione dell’economia israeliana, contro la censura e  per la creazione di una Costituzione per il Paese. (In effetti con l'Indipendenza di Israele, nel 1948, sono state stabilite una serie di leggi fondamentali, ma non una Costituzione). Un uomo di grande dedizione, professionalità e cultura, così lo ha descritto Amos Elon, uno dei principali cronisti nella storia di Israele e autore del libro Israeliani, padri fondatori e figli, dopo la scomparsa dell’editore nel 1990.

Sotto la direzione di Gershom Schocken, lo stesso Elon è diventato un giornalista di fama internazionale grazie alla sua abilità nel dipingere la realtà israeliana: grande successo hanno avuto i suoi articoli sulla realtà dei kibbutzim, sulla vita degli immigrati e sulla “seconda Israele”, riferimento ai settori più emarginati della società israeliana. Considerato uno dei più grandi giornalisti di Israele, Elon è ora lontano dalla redazione, avendo deciso di vivere gli anni della pensione in un pacifico paesino della Toscana. Intervistato da Ari Shavit, giornalista di Haaretz , Elon racconta di aver lasciato il giornale e Israele per una sorta di frustrazione. Negli ultimi quarant’anni, secondo lui, non vi sono stati cambiamenti significativi. I problemi si ripetono, le soluzioni si fanno attendere. Così il giornalista comincia a sentirsi ripetitivo, ad annoiare persino se stesso, non vi è più dialogo o quantomeno non è fatto in modo produttivo. La soluzione di Elon è stata quella di lasciarsi tutto alle spalle.
Qualche buona parola Elon la spende per il suo vecchio giornale, a suo dire uno dei pochi quotidiani nel panorama internazionale a non essere stato risucchiato nell’industria dell’intrattenimento con i suoi titoli sensazionalisti e gli articoli incentrati sulla cronaca nera e il gossip.  Elon si complimenta in particolare con Hanoch Marmari (direttore fino al 2004) per aver reso Haartez più interessante e cosmopolita.

Altro giornalista e saggista che ha reso Haaretz la voce più autorevole del Paese, è Ze’ev Schiff, definito in un articolo apparso dopo la sua scomparsa nel 2007, come la quintessenza del corrispondente militare israeliano. Le sua analisi obbiettive e acute venivano lette e prese in grande considerazione dai più alti livelli dell'esercito israeliano. “Era un’istituzione in quanto tale, è stato uno dei fondatori del pensiero strategico in Israele” così lo definisce Zvi Stauber, direttore dell’Institute for National Security Studies.
Corrispondente militare in Vietnam, Unione Sovietica, Cipro ed Etiopia, “Wolfy” (traduzione inglese del suo nome) era difficile da ricondurre ad un determinato schieramento politico. Dopo la guerra del Libano del 2006 criticò aspramente la dirigenza politica e militare, accusandola di incompetenza, di prendere decisioni affrettate e di aver permesso che la lotta al terrorismo finisse per screditare un esercito che prima eccelleva per competenza e preparazione

Queste e molte altre importanti figure del giornalismo israeliano hanno permesso a Haaretz di ottenere un livello qualitativo d’eccellenza, caratterizzato da uno stile diretto e tagliente simile al britannico Times, al tedesco Der Spiegel o all’americano New York Times, giornali che da sempre costituiscono un esempio internazionale di professionalità e indipendenza..

Influenzata dall’umanesimo paterno, l’idea di Gershom Schocken era creare un giornale in grado di garantire al proprio lettore tutte le informazioni necessarie, in modo da farne un membro attivo di una moderna democrazia come il  giovane Stato di Israele. Il giornale non deve limitarsi a dare notizie, deve permettere alle persone di confrontarsi consapevolmente con la realtà. Prende così corpo un giornale che analizza i problemi da posizioni diverse, spesso scomode, in modo da dare al lettore una visione che vorrebbe essere ricca e ampia.
Ma come può un giornale avere successo se non riflette nemmeno l’opinione di gran parte dei suoi lettori e abbonati? Vi è un limite da porre all’informazione per evitare di offendere la sensibilità comune? Nell’ultimo periodo hanno creato particolare scalpore e malessere fra i lettori , gli articoli di Gideon Ley e Amira Hass che raccontano la sofferenza dei palestinesi dei territori occupati. Molti contestano ai due giornalisti di parteggiare per la causa palestinese e di dimostrare una sostanziale indifferenza rispetto ai problemi della popolazione israeliana, accusando il giornale stesso di essere sleale.
Il concorrente Jerusalem Post sostiene che i giornalisti di Haaretz tendono a demonizzare Israele e fanno un vera e propria propaganda a favore dei palestinesi. Per uscire dalla situazione, oramai imbarazzante, Amos Schocken (nell'immagine in alto), diventato proprietario del giornale dopo la morte del padre Gershom, ha cercato la via del dialogo con i propri lettori, rispondendo via lettera e mail alle loro perplessità.
Dal momento che Haartez stava perdendo lettori e soldi, ci si sarebbe aspettati un’imposizione dall’alto per fermare le polemiche e ammorbidire le voci scomode,  mentre Amos si è trovato, come racconta in un’intervista, nella situazione paradossale di dover rassicurare il proprio redattore, troppo preoccupato per l’accesa reazione dei lettori. Quest’ultimo ha replicato stupefatto “ho un fanatico suicida come editore” . La scelta di rimanere coerenti alla direzione presa, spiega Amos, nasce dall’idea originaria degli Schocken che il giornale abbia una missione: raccontare la verità, o quantomeno tentare di farlo, senza rincorrere i sentimenti dei lettori.
Sulla questione palestinese, l’editore sostiene che “la condizione in cui vivono milioni di palestinesi intorno a noi israeliani è qualcosa che dobbiamo conoscere”, inoltre “la capacità degli israeliani di prendere decisioni sul proprio destino migliorerebbe sicuramente se avessero una maggiore conoscenza, e forse una maggiore comprensione, per la vita, i pensieri e le percezioni dei nostri più stretti vicini, i palestinesi”.
Nonostante il periodo burrascoso e in controtendenza al declino generale della stampa in Israele, Haaretz è cresciuto del 20% nelle vendite negli ultimi tre anni, in particolare con i direttori David Landau prima e Dov Alfon poi. Il giornale è passato da 62,000 a 74,000 copie vendute durante la settimana e intorno alle 100,000 al venerdì, con la ricca edizione del fine settimana, quando il giornale esce con inserti riguardanti scienze, cultura, arte, finanza e sport. Grande successo sta ottenendo il sito in inglese, con quasi un milione di visitatori al mese e un ampio e dinamico spazio per i commenti dei lettori.
Per incrementare ulteriormente le vendite nella primavera del 2008 è stato nominato alla direzione Dov Alfon, ritornato al giornale dopo un brillante periodo al comando della casa editrice Kinneret Zmura-Beitan Dvir, che sotto la sua direzione ha duplicato il numero delle pubblicazioni vendute.
Secondo Alfon uno degli ostacoli maggiori a una maggiore diffusione del quotidiano è la dimensione del formato, troppo grande e ingombrante. Preferirebbe vedere Haartez in una forma più snella, simile a quella dei tabloid inglesi. Ma i contenuti, assicura il nuovo direttore, non cambieranno. Alfon ha più volte sottolineato come in Israele, a differenza che in Europa o negli Stati Uniti, la politica continui a far vendere e che gli israeliani esprimano un grande desiderio d’informazione. Un dato che contribuisce a tutelare la salute di molte testate diverse e ne garantisce l'indipendenza anche quando scelgano la strada della critica e talvolta della provocazione.

Daniel Reichel
 
 
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  volliIl giornalismo non denuncia
ma mostra e rende palese


Una breve nota di Anna Foa pubblicata da Moked qualche giorno fa, come sempre molto acuta e problematica, mi sollecita una riflessione da semiologo. Foa riferiva di una “aspra” discussione fra André Gluksmann e Gideon Levy, il capofila degli editorialisti “scomodi” di Haartez, in cui  “Lévy sosteneva che di fronte a eventuali atti ingiusti o illegittimi dell'esercito israeliano, si sentiva moto più coinvolto e spinto alla denuncia che se a commettere ingiustizia fossero stati degli altri”. Il problema del semiologo è questo: in che senso il giornalismo può “denunciare”? certo non si tratta qui di “dichiarare, portare a conoscenza dell’autorità competente”, primo significato elencato dai dizionari; semmai “estensivamente: mostrare, palesare”, secondo significato ammesso. Il problema è che Levy non fa il giornalista di inchiesta, né l’inviato sul campo come la sua compagna di giornale e di battaglie Amira Hass. Levy è un editorialista che condanna Israele per principio. Era sbagliata per lui la guerra del Libano, ma anche l’operazione a Gaza (anzi sono la stessa cosa; sbagliato un governo delle destre, ma sbagliato per le sinistre unirvisi e sbagliatissimo il risultato delle elezioni. Prendiamo un articolo di un mese fa, che ha avuto grande rilievo nei blog anti-israeliani anche in Italia.
Scrive Levy: “Cos’è il sionismo oggigiorno? Un concetto arcaico e datato nato in una realtà differente, un’idea vaga e illusoria che stabilisce la differenza tra lecito e proibito. Significa, sionismo, colonizzazione dei territori? Occupazione? Legittimazione di ogni atto violento ed ingiusto? La sinistra ha balbettato. Ogni affermazione critica verso il sionismo, perfino il sionismo dell’occupazione, è stata considerata un tabù che la sinistra non ha osato rompere.” […] Chiunque voglia una sinistra importante, deve prima riporre il sionismo in soffitta. Fino a quando non ci sarà un movimento che, all’interno del mainstream, abbia il coraggio di ridefinire il sionismo, non ci sarà mai una sinistra che conti. […] Si deve rompere con questo tabù. Non dichiararsi sionisti, secondo i canoni comunemente accettati oggi, è lecito. È lecito credere nel diritto degli ebrei ad avere uno stato ma al contempo dichiararsi contrari al sionismo che prende parte all’occupazione. È lecito ritenere che ciò che accadde nel 1948 dovrebbe essere ridiscusso a livello politico, chiedere scusa per le ingiustizie e riabilitare le vittime. […]Se volete, questo è sionismo, o se preferite, anti-sionismo. In ogni caso, per tutti coloro che non desiderano veder Israele cadere vittima delle follie della destra per molti altri anni a venire, tutto questo è lecito. Chiunque voglia una sinistra israeliana deve dire basta al sionismo, quel sionismo di cui oggi la destra ha pienamente il controllo.”
E’ denuncia, questa? motivata da uno speciale senso di giustizia? E’ “provocazione”, come scrivono altri? Non direi. E’ pura faziosità politica, incapacità di riconoscersi in un destino comune. Evidente vocazione a fare la mosca cocchiera della società israeliana. Per provarlo mi permetto di sottoporvi un’altra citazione un po’ lunga, tratta però dalla penna di un grande scrittore come A.B.Yehoshuah, tratta da un intervento che a me sembra importantissimo (La stampa del 24.3):
“Ritengo che il drammatico voltafaccia degli elettori della sinistra sia probabilmente di origine emotiva. Senza rinunciare alle speranze di pace, molti di loro hanno espresso in questo modo la disapprovazione verso il tono cinico, lamentoso e ferocemente critico nei confronti dello Stato e delle sue istituzioni recentemente adottato da portavoce e giornalisti della sinistra (soprattutto da quelli di Haaretz, il più importante quotidiano di sinistra di Israele). Durante l'ultima operazione a Gaza molti di loro non hanno esitato a bollare i loro connazionali come «criminali di guerra» e ad accogliere le posizioni dei palestinesi senza muovere alcuna critica verso le loro aggressioni. Nell'opinione pubblica si è diffusa la sensazione che tali personaggi avessero perso il naturale senso di solidarietà col loro popolo e soprattutto con gli abitanti del Sud di Israele, bersagliati dal fuoco di Hamas dalla striscia di Gaza. Talvolta sembrava che i loro attacchi velenosi non fossero rivolti a questa o quella decisione del governo ma si unissero alle critiche della sinistra mondiale verso la legittimità stessa di Israele. La negazione dell'ideale di uno Stato ebraica è infatti comune a circoli religiosi ultraortodossi e alla sinistra antisionista. Le fasce più deboli della società israeliana hanno spesso criticato la sinistra nei seguenti termini: voi vi preoccupate più degli arabi che di noi. Tali critiche sono state puntualmente respinte. Per la prima volta per ho la sensazione che alcuni miei vecchi amici, accantonato l'impegno della lotta ideologica a favore di «due stati per due popoli», principio ormai generalmente accolto, mantengano una carica di energia polemica non ben finalizzata e abbiano cominciato a lanciare fuoco e fiamme contro le fondamenta stesse dello Stato”
La crisi della sinistra israeliana non deriva dal fatto di essere stata troppo accondiscendente (se i laburisti al governo sono passati in quindici anni da 44 a 13 seggi della Knesset, Meretz all’opposizione è sceso da 14 a 3 e non si sono affermati nuovi partiti alla loro sinistra). Essa nasce probabilmente al contrario dal sospetto che personaggi come Gideon Levy possa influire sulle loro scelte. Un po’ come è successo da noi: l’appoggio dei “grandi giornalisti” che denunciano lo scandalo dei tempi e tuonano contro il popolo bue non ha certo aiutato il partito democratico, semmai ha portato voti a Berlusconi.
E’ particolarmente interessante (anche pensando a chi fa discorsi del genere in Italia) il paragone di Yehoshuah fra i personaggi alla Gideon Levy e i religiosi antisionisti alla Naturei Karta (quella minisetta ultrareligiosa i cui capi sono andati a rendere omaggio ad Ahmadinedjad, portando sul risvolto delle loro palandrane nere dei distintivi con la bandiera palestinese. La ragione del loro antisionismo, e di quello più serio di molti altri haredi (ricordiamo che il Rebbe di Lubavitch non ha mai voluto mettere piede in Israele né riconoscere esplicitamente l’esistenza dello stato ebraico), ha proprio a che fare con l’ “ingiustizia” richiamata nel dibattito da cui siamo partiti. Ben Gurion sapeva che per sopravvivere Israele doveva diventare uno Stato come gli altri, fare politica, esercitare la forza contro i suoi nemici, scegliere le alleanze possibili, anche se scomode. Per questo auspicava che Israele diventasse “uno stato normale con ladri e puttane”, secondo un’espressione celebre; e certamente questo desiderio è stato realizzato. Lo sanno anche i religiosi antisionisti, che proprio per questo pensano che Israele come Stato normale non andava proprio fondato e che solo l’arrivo del Mashiach avrebbe potuto evitare il livello di ragionevole ingiustizia che tiene sempre assieme uno Stato. Non accettarlo “denunciare l’ingiustizia” nostra più di quella altrui, volere “uno Stato etico” (terribile espressione che dovrebbe mettere in sospetto già da sola) vuol dire in sostanza lavorare per la distruzione di Israele. Non per cattiveria, ma per eccesso di idealismo.
Tornando al nostro discorso sul giornalismo, bisogna distinguere i crionisti veri dai propagandisti che accreditano qualunque cosa faccia loro comodo contro Israele (come si è visto nella campagna di Haaretz fondata sulle “rivelazioni” di Zamir). Se i cronisti fanno il loro lavoro di inchiesta e trovano cose da denunciare, che le denuncino: le “riferiscano all’autorità competente” secondo l’espressione del dizionario: troveranno un sistema legale capace di far dimettere in tre anni un presidente della repubblica (Katsav)  e un primo ministro (Olmert), e in procinto di prendere una decisione su Liberman, che può essere molto più influente delle malignità politiche (naturalmente Levy è il primo a sostenere che Liberman sia “fascista”). Ma se non hanno nulla di concreto da denunciare, declamano, come fa Levy e in generale Haaretz. Vorrebbero un’altra politica, un’altra Kneset, altri parlamentari e ministri. Nell’attesa, dato che se li è scelti l’elettorato, fanno come quel comitato centrale del partito comunista della Germania Est preso in giro da una poesia di Brecht, che, avendo il popolo espresso sfiducia nei confronti del governo, dichiararono sciolto… il popolo.

Ugo Volli, semiologo

 
 
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Oggi, 25 marzo, è doveroso aprire il nostro commento alla stampa quotidiana con i resoconti delle manifestazioni legate al 24 marzo, a sessantacinque anni dalla strage delle Fosse Ardeatine. Ne parlano naturalmente tutti i giornali, che riportano l’invito del presidente Napolitano – nel quadro del ricordo di un episodio tra i più spietati della persecuzione antiebraica e tra i più significativi della guerra di Liberazione – a dare centralità alla memoria, a non ripetere gli errori del passato. Molti quotidiani (Il Corriere della seraLiberalIl RiformistaE-Polis) si soffermano anche sulle parole pronunciate dal presidente della Camera Fini nel corso di un convegno su Giuseppe Cordero di Montezemolo, colonnello monarchico del Genio Militare e martire antifascista delle Fosse Ardeatine.
Ma a calamitare la nostra attenzione di lettori “un po’ speciali” dei quotidiani è ancora una volta la pagina del Medio Oriente. Riflettori puntati su Israele e sulla decisione di Barak di far entrare i laburisti nel governo Netanyahu. I giornali di oggi, con un occhio attento alla stampa israeliana, le evocano tutte. Gesto politico non certo limpido: volontà di rimanere comunque in sella, “sfida alla coerenza”, “esercizio di trasformismo” (a.s. su Repubblica), addirittura “truffa dell’anno” (giudizio lapidario di Kadima). Decisione essenziale per la vita del Labour: “suicidio assistito” (Jerusalem Post, riportato dal Corriere della sera), Barak come Nerone davanti a Roma che brucia (Ma’ariv, ripreso anch’esso dal Corriere che non esita presentare una scheda sul partito laburista “dalla nascita al crollo”). Strada oscura e pericolosa per il futuro politico: “Accordo ambiguo che ignora i nodi storici” titola significativamente Il Sole 24 Ore. Ma esistono anche interpretazioni diverse. Per esempio, si segnala l’analisi di Jean Carlo sul Messaggero, che guarda alla politica interna israeliana attraverso la lente internazionale dei rapporti Usa-Iran e del disappunto di Obama per un possibile governo della sola destra, vero inciampo alla sua intraprendenza diplomatica. 
Diversa è anche, su Liberal, la lettura di Antonio Picasso, che non si schiera apertamente, cercando l’equilibrio di un’informazione oggettiva e possibilista di fronte ai rinnovati impegni internazionali assunti in questa fase preparatoria, impegni che invece molti, come ad esempio Alberto Stabile su Repubblica, indicano realisticamente come “pura retorica”.
Intrigante è il ritratto parallelo di Ehud Barak e di Bibi Netanyahu  – una sorta di “Vite parallele” alla Polibio – disegnato da Davide Frattini sul Corriere della sera
A Tzipi Livni vincitrice eppure paradossalmente esclusa dal potere è invece dedicato un pezzo di a.s. (Alberto Stabile) su Repubblica; mentre un intervista del politologo israeliano Avraham Diskin a Liberal prevede che “l’errore della Livni spaccherà Kadima”.
All’attuale crisi di coscienza dell’esercito israeliano, dopo le denunce sui veri o presunti abusi di potere durante l’operazione “Piombo Fuso”, Il Foglio
dedica un interessante analisi, dalla quale Tsahal emerge come un esercito attualmente scisso tra due influenze contrapposte, quella di orientamento ultra-religioso, fortemente e pregiudizialmente antipalestinese, e quella di tendenza liberale-laica, più attenta – nello scontro col terrorismo palestinese – alle “questioni umanitarie”. A Gaza si sarebbe giocata anche una partita tra queste due posizioni. La crisi interna è invece interpretata senz’altro da Christopher Hitchens sul Corriere della sera come una “deriva religiosa dell’esercito israeliano”. In un articolo che potremmo definire “apocalittico” il saggista americano evoca lo spettro di “montagne di cadaveri” e di presunti crimini israeliani, chiedendo a gran voce la cessazione degli aiuti americani a Israele, definiti addirittura una violazione della Costituzione statunitense: squallidamente unilaterale e davvero inquietante, sono i commenti che vengono più immediati. La crisi interna di Tsahal, peraltro, non è negata neppure da Fiamma Nirenstein sul Giornale. La giornalista e deputata del centrodestra ha cento volte ragione quando sottolinea la sistematica mancata denuncia, in sede Onu, delle continue e sistematiche violazioni dei diritti umani da parte dei palestinesi.

David Sorani

 
 
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L'accordo fra Ehud Barak e Benyamin Netanyahu                        
e la delusione di Tizipi Livni        
Tel Aviv, 25 mar -
Tzipi Livni, leader del partito centrista israeliano Kadima e ministro degli Esteri uscente, si è detta "rattrista" per l'accordo raggiunto ieri fra il partito laburista di Ehud Barak e la coalizione di destra, in via di formazione da parte del premier incaricato Benyamin Netanyahu. L'opinione della Livni, registrata dall'edizione online del quotidiano Yediot Aharonot, è che Barak così facendo contribuisce ad accrescere la sfiducia dei cittadini verso la politica. E ha definito la mossa politica del leader laburista “una espressione di brutta politica”. Kadima dal canto suo - confermatosi primo partito del Paese alle elezioni del 10 febbraio, ma privo di una maggioranza autonoma non entrerà nel nascente governo Netanyahu e intende guidare l'opposizione, ha ribadito Livni.

 
 
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