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L'Unione informa
 
    15 marzo 2009 - 19 Adar 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Benedetto Carucci Benedetto Carucci Viterbi,
rabbino 
La rottura delle tavole della legge è uno degli episodi più forti del testo biblico. Quale sia il motivo del gesto di Mosè non è però così chiaro: possibile attribuirlo solamente all'ira? E poi: perché a questo atto non corrisponde alcuna reazione punitiva di Dio (ma anzi, secondo il midrash, un Suo evidente consenso)?  Il Meshekh Hockhmah propone una risposta possibile a tali domande: l'idolatria, ci dice, non è legata a un oggetto ma a un atteggiamento. Mosè rompe le tavole perché si rende conto che il popolo avrebbe fatto anche di queste - in quel momento - un culto estraneo.
Intorno alla vicenda di Pordenone – l’aggressione a un omosessuale disabile da parte di un gruppo di italiani “orgogliosi”, accaduta a gennaio e diventata notizia nazionale solo mercoledì scorso - ha dominato sovrano il silenzio. Non ha suscitato  né voci scandalizzate, né le opinioni dei
“professionisti dal ciglio alzato”. Per riepilogare: a Pordenone il 23 gennaio scorso quando avviene la scena dell’aggressione nessuno reagisce eccetto un signore che telefona e chiama le forze 
dell’ordine. Eguale silenzio, da mercoledì scorso, su tutto il territorio nazionale. Quell’aggredito dunque – a differenza di altri aggrediti - suscitava indifferenza: nel momento dell’aggressione (il 23 gennaio), ma anche dopo, nella seconda metà della settimana scorsa. Nessuno ha chiesto che fosse fatta giustizia, nessuno ha urlato che in assenza di giustizia, si sarebbe fatto giustizia da solo. Perché questa volta è andata così? Non sono stato in grado di trovare una risposta per l’indifferenza del 23 gennaio. Per quella della settimana appena conclusa, visto il peso della notizia e lo spazio di pagine occupato sui giornali, potrei azzardare l’ipotesi, che molti erano in lutto per l’uscita in massa di tutte le squadre dal giro delle coppe europee di calcio e dunque non c’era spazio per ulteriori emozioni.
David Bidussa, storico sociale delle idee
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  gadi polaccoQui Livorno - La città toscana
è oggi capitale dell'ebraismo italiano

Oggi Livorno può definirsi "capitale" dell'ebraismo italiano: ospita infatti una seduta del Consiglio dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e nel pomeriggio, con il patrocinio di Comune e Provincia, si tiene un convegno sulla bioetica dal punto di vista ebraico, organizzato dal
Dipartimento Educazione e Cultura dell'UCEI con la collaborazione della Comunità ebraica livornese. A chiudere la giornata, la neonata sezione locale del Benè Berith riceve la visita del Presidente europeo Weinberg.
Non posso nascondere la mia soddisfazione per questa massiccia dose di attività ebraica che viene immessa questa domenica a Livorno e ciò non solo per meri motivi campanilistici. Circa un'iniziativa sulla bioetica, da realizzare appunto nella città labronica, ebbi modo di parlare con Rav Gianfranco Di Segni (uno dei principali relatori della giornata) al Moked di Forte dei Marmi. Tema oggi più che mai in evidenza, quello della bioetica, è importante far rilevare pubblicamente come vari possano e debbano essere gli attori di un confronto su questo terreno. Livorno, città storicamente aperta alle varie culture a partire da quelle che ne posero le fondamenta, è indubbiamente una città particolarmente idonea a raggiungere questo scopo.
La seduta in loco del Consiglio dell'Unione dimostra invece, al pari di analoghe iniziative svolte altrove, attenzione da parte dell'UCEI alle realtà ebraiche del territorio e volontà di coinvolgimento anche delle "piccole" Comunità.
Benvenuti quindi a Livorno!

Gadi Polacco, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
 
 
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  anna momiglianoRotschild Boulevard - La Jewish Ivy
taglia il suo programma in Israele

Se la chiamano la “Jewish Ivy”, un motivo c'è. Con un buon 30% di studenti ebrei, la University of Pennsylvania (detta Penn) si è sempre distinta per l'apertura alle altre culture e alle minoranze, a cominciare da quella ebraica, tra tutti gli atenei dell'Ivy League (il consorzio che riunisce le 8 università più prestigiose d'America, incluse Harvard e Princeton, spesso associato all'élite Wasp) . Fondata a Filadelfia da Benjamin Franklin nel 1740, a lungo è stata un'oasi di yidishkeyt, in un establishment accademico prevalentemente dominato dalla cultura anglo-protestante.
Adesso le cose ovviamente sono un po' cambiate, e gli studenti ebrei abbondano in tutte le università, di élite e non, degli Stati Uniti. Ma la tradizione ha lasciato una forte identità, Penn resta la “Jewish Ivy”, e molti studenti ebrei la scelgono proprio per questo. Ci sono anche molti studenti arabi e musulmani, il che rende il dibattito nel campus molto stimolante, sempre su un piano di confronto civile. Gruppi come Hillel e Aipac (American Israel Public Affairs Committee) lì sono molto attivi e radicati. Proprio per questo, stupisce la notizia di questi giorni: Penn è tra le quattro università americane che hanno cancellato il proprio programma di studio all'estero in Israele. L'uni
ca tra i membri dell'Ivy League.

università di pennsilvaniaNo, non c'è nessun boicottaggio accademico: anzi docenti e figure pubbliche israeliani sono spesso invitati a tenere conferenze. Piuttosto si tratta di una questione di sicurezza: dopo la guerra di Gaza, le autorità dell'università non se la sono più sentita di mandare i ragazzi a studiare per un anno o per un semestre in Israele. A Gerusalemme Penn aveva un programma di scambio con l'Università ebraica. Cosa c'entra la guerra di Gaza con Gerusalemme? Il giornale del campus spiega che “mentre i combattimenti sembrano ben lontani da Gerusalemme, è impossibile sapere se la situazione rimarrà tale”.
Sarà. Ma intanto le associazione ebraiche e sioniste non l'hanno presa molto bene. Fanno notare che la precauzione è eccessiva e che depriva gli studenti di un'opportunità importante di crescita e di studio : “Al di là dei titoli dei giornali, Israele offre una cultura calma e vibrante, un'opportunità per l'arricchimento accademico” si legge in una lettera firmata dai leader di Hillel e della Penn Israel Coalition.E' un gran peccato, perché con la cancellazione del programma israeliano Penn ha perso un tassello importante della ricchezza culturale che l'ha resa non solo la “Jewish Ivy”, ma soprattutto un laboratorio di idee cosmopolite e di confronto.

Anna Momigliano
 
 
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Cent'anni di Tel Aviv

“Ai tempi dei kamikaze, era il 2004, stavo a una festa sul lungomare. Qualcuno disse: è appena esplosa una bomba, tre chilometri da qui. Lo disse gridando, perché la musica era alta e non si sentiva. Vicino a me cera una ragazza bionda. Stava bevendo qualcosa. Deglutì. Si girò con una smorfia: Dio, disse, una bomba! Ma è una cosa terribilmente anni Novanta! Ecco, lei era una cosa tipicamente telavivi. Perché ci sono due mondi ebraici: Tel Aviv e il resto d'Israele”. Dizengoff, angolo Jabotinskv. Passeggiano i rabbini e i ragazzi hip-hop. Dal tavolino della sua solita colazione, al Michal Café, ogni mezzodì Keret adora guardare Ha-Buah. La Bolla, come chiamano Tel Aviv. Un mondo a parte che pare sempre sottovuoto, sigillato, scollegato dagli inferi mediorientali, che mezzo Paese per questo detesta e l'altro mezzo. per la stessa ragione, adora. Keret, il più famoso dei giovani scrittori israeliani, “il nostro Carver”, sta nel secondo gruppo: «Durante la guerra di Gaza, tutto il mondo ne parlava. Tutto, meno noi. Ed eravamo a meno di un'ora d'auto dalle bombe».

Te la do io Tel Aviv. Cent'anni fa qui era tutta sabbia e sicomori. C'erano Jaffa, gli arabi, un po' di sefarditi e di askenaziti. Il primo chiosco delle spremute si vede ancora, sulla Rothschild, e fa un buon espresso proprio dove stava il primo lampione a gas: rara reliquia, nella Città Bianca che tutto distrugge e tutto rigenera, peggio che a New York. Se vai a cercare dove abitava Weiss, uno dei 66 fondatori, ci trovi un ristorante di pesce. Se chiedi dov'era il liceo Herzliya, che fino agli anni Sessanta istruiva la classe dirigente, ti imbatti nella Shalom Tower, che vantavano come il grattacielo più alto del Medio Oriente, prima che arrivassero sceicchi e petrodollari. Se vuoi vedere le colorate maioliche Betzalel che ornavano le facciate, ora stanno perlopiù al museo. Non c'è più traccia dell'albergo Sanremo, che negli anni Quaranta faceva ballare gli scampati alla Shoah, o del caffè letterario Kassit. Il centro è un cantiere per le nuove torri firmate Richard Meier o Ieoh Ming Pei e adesso la movida si fa nei locali, nelle librerie, nelle boutique di Michal Negrin a Shenkin e a Florentine, alla Cinemateque e al caffè Herrietta, nei mille sushibar o sulla Taielet.

I ragazzi della notte fanno colazione al chiosco di Abulafia e poi vanno a baciarsi, scambiandosi in bocca l'ovetto al cioccolato di Max Brenner. Alla fine è un miracolo che ci sia ancora Newe Zedek, quartiere un po' artistoide dove il metro quadro ha prezzi inferiori solo a Tokyo e a Manhattan. O sia rimasto in piedi il tesoro delle quattromila case stile Bauhaus, il più grande giacimento al mondo protetto dall'Unesco: il fascinoso hotel Cinema e l'auditorium Mann, le palazzine bianche con le finestre a nastro e a onde, costruite dagli ebrei russi, polacchi, tedeschi che videro in quell'architettura essenziale un buon rimedio al gran caldo e alla loro scarsa dimestichezza con l'edilizia, ma pure la traduzione degli ideali socialisti da kibbutz, vedersi tutti uguali nell'orizzonte di un nuovo Stato. A Etgar Keret piace questo posto orizzontale e senza troppe memorie: «Mi capita anche a Roma: capisco meglio la città se vado nei quartieri di Nanni Moretti, non in piazza di Spagna. Per i monumenti e per affermare le identità, c'è Gerusalemme. Io preferisco un luogo che non ha una grande storia. E che invece ha una grande spiaggia. meglio di Miami, perché ci vai a piedi. Quasi nessuno è nato a Tel Aviv. E se il sabato mi sdraio a Gordon Beach, siamo tutti in costume: immigrati, tutti uguali. Esattamente il contrario di Gerusalemme, dove ci si veste di nero o velati per dire chi si è. Questa è una realtà extraterritoriale. E la spiaggia è la nostra garanzia. Quando ci fu la prima guerra del Golfo, e Saddam ci lanciava gli Scud, tutti sapevamo che il modo migliore per ripararci era quello: buttarsi a mare».

Perché Tel Aviv si chiama così? Molte le spiegazioni e la più suggestiva è che Tel (collina) indichi un'antica necropoli, mentre Aviv (primavera) dia il senso della rinascita. La vita sulla morte. «Ci piace smontare le parole» spiega Keret: «La nostra è una lingua che per duemila anni non c'è stata, un pò come questo luogo. E allora si inventa, si rifà, si prende da altre lingue. Siamo un miscuglio di Iran e di California. Per salutarci, sui boulevard, diciamo tov yalla bye, bene-andiamo-ciao: ebraico, arabo e inglese messi insieme. Per la cocaina c'è un termine nato a Tel Aviv: “leasnif” la traduzione dello sniff inglese. Per parlare d'uno che va a zonzo c'è “lezdangef” , l'anagramma di Dizengoff, la nostra via del passeggio», hanno cambiato il nome anche a Jaffa, per la verità, che ora è Yafo e da sessant'anni è inglobata: dei centomila arabi che ci vivevano allora ne sono rimasti ventimila. La parte antica è stata restaurata per metterci botteghe d'artisti, perlopiù ebrei, spesso fra problemi d'alcol e di droga. «Quello che ha fatto il cristianesimo all'ebraismo» ha scritto Sharon Rotbard nel suo Città nera, città bianca, una storia rivisitata «e quello che ha fatto l'ebraismo a Jaffa». Senza l'antico porto, poco integrati, gli arabi oggi sono una bolla nella bolla: raro che vadano ad abitare a Tel Aviv, anche per i prezzi; frequente che nei periodi caldi si scatenino a sassate. La coesistenza, quando non sfocia nell'intolleranza, si adatta alla reciproca indifferenza. «Qui non è Haifa, che ha mischiato arabi ed ebrei» riconosce Keret. E questa città se l'è scritta da sola, la sua storia: «Sigillati, scollegati. A farsi canne sulle spiagge dell'India. Poi però si scopre che i ragazzi di Tel Aviv sono la maggioranza del volontari nell'esercito. E che i telavivi morti in guerra sono quanti quelli delle altre città. Siamo liberi di testa, non imboscati. E se vuoi un consiglio, fai una camminata sulla Ben Gurion. Parti dalla spiaggia, dove c'è la lapide che ricorda la nave Altalena e lo sbarco degli irredentisti che cacciarono gli inglesi. Poi risali e vede la casa dell'uomo che fondò questo Paese, il primo teatro, il caffè A Propos dove si fece saltare un kamikaze. Alla fine arrivi a piazza Rabin. Il posto dell'assasinio. In un quarto d'ora, attraversi la storia d'Israele. E forse capisci che se scoppia La Bolla, scoppia un intero paese».


Francesco Battistini, Corriere della Sera – Io Donna, 14 marzo 2009

 
 
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Israele: Canale 10 rivela i primi nomi della lista di Hamas             per lo scambio di prigionieri
Tel Aviv, 15 mar -
La televisione commerciale israeliana Canale 10 ha rivelato i primi nomi in testa alla lista di Hamas per lo scambio di prigionieri, ma finora in merito non si è avuta una conferma ufficiale. Se Israele accetterà la lista ricevuta da Hamas, dovrà rimettere in libertà i responsabili dei più gravi attentati terroristici perpetrati negli ultimi anni da Hamas e dalla Jihad islamica. Fra di loro ve ne sono alcuni che scontano ergastoli plurimi per aver ucciso decine di israeliani. 
- Abbas Saadi, Hamas, uno dei responsabili dell'attentato suicida all'Hotel Park di Natanya (marzo 2002), 30 morti.
- Abdallah Barghuti, Hamas, organizzatore dell'attentato al ristorante Sbarro di Gerusalemme (agosto 2001, 15 morti), del doppio attentato nella Via Ben Yehuda di Gerusalemme (dicembre 2001, 11 morti), dell'attentato nel caffé Moment di Gerusalemme (marzo 2002, 11 morti).
- Ibrahim Hamed, Hamas, responsabile della morte di 55 israeliani in diversi attentati fra cui quello di Rishon Le-Zion (maggio 2002, 16 morti) e quello di Zrifin, presso Tel Aviv (settembre 2003, 8 morti).
- Bassam Saadi, Jihad islamica, responsabile degli attentati di Afula (maggio 2003, 3 morti), Megiddo (giugno 2002, 17 morti) e Karkur (ottobre 2002, 14 morti).
Altri nomi inclusi nella lista sono quelli di Hassan Salameh e Atya Abu Warda (27 morti in due attentati del 1996); Muwaz Abu Sharaf (attentato in un autobus di Haifa, marzo 2003, 17 morti), Majdi Amro, Muhammed Amran e Jamal Abu Hija, tutti coinvolti in sanguinosi attentati.  


MO: Olmert, "I palestinesi mancano di coraggio"
Gerusalemme, 15 mar -
Il premier israeliano Ehud Olmert in quella che potrebbe essere l'ultima seduta settimanale del suo governo, ha oggi affermato che se Israele non è giunto a un accordo di pace "è solo per la debolezza e la mancanza di coraggio della leadership palestinese"
"L'ho detto in passato e non esito a ripeterlo, ha affermato Olmert, Israele dovrà fare rinunce drammatiche e dolorose in maniera inaudita per giungere a un accordo. Ma se non vi siamo arrivati, lo si deve in primo luogo alla debolezza, alla mancanza di volontà e alla mancanza di coraggio della leadership palestinese". "Tutto il resto sono scuse e tentativi di distogliere la attenzione dalla questione centrale" ha aggiunto. Nel corso della seduta Olmert ha tratto un consuntivo, a suo parere positivo, dell'operato del governo in diversi settori negli ultimi tre anni. "Possiamo sentirci fieri e orgogliosi" ha concluso. 
 
 
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