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L'Unione informa
 
    6 marzo 2009 - 10 Adar 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  Roberto Colombo Roberto
Colombo,

rabbino
E' scritto nella Meghillà: "Il primo mese, cioè il mese di Nissan, il decimosecondo anno del re Assuero, si gettò il pur, cioè la sorte (Ester, 3,7)". Non sarebbe stato forse più semplice e immediato dire: "Si gettò la sorte" di Israele, senza usare prima il termine persiano pur e poi la sua traduzione ebraica? Questo è il senso di Purìm: ogni ebreo, per il suo bene, deve imparare a valutare ciò che accade attorno a lui e a tradurlo in termini ebraici. Il pericolo per noi inizia nel momento in cui si accetta la storia così com'è nell'incapacità di interpretare i veri intendimenti dei nemici nascosti, siano essi in carne e ossa oppure travestiti da ideologie. (Itzkhàk Hutner)
Questa settimana cade il terzo anniversario della scomparsa di mio padre, il giornalista ebreo Massimo Della Pergola, l’ideatore della Sisal e del Totocalcio, che amava Israele, tanto è vero che tutti i suoi nipoti e bisnipoti vivono là. Grazie al concorso pronostici sul calcio, lo Stato italiano e il Coni hanno potuto incassare cifre favolose che hanno permesso allo sport italiano di risollevarsi dopo la Seconda Guerra Mondiale, di conseguire mète ambite come l’organizzazione dei Giochi Olimpici invernali a Cortina nel 1956, le Olimpiadi di Roma nel 1960, i campionati mondiali di calcio nel 1990, e di vincere molte prestigiose medaglie. Ora l’Italia organizza i XVI Giochi del Mediterraneo a Pescara e, causa il boicottaggio arabo, Israele ne sarà ingiustamente esclusa così come lo è stata nelle precedenti quindici edizioni, inclusa Napoli nel 1963 e Bari nel 1997. Il regolamento prevede che per l’ammissione di un paese ai giochi sia necessaria l’approvazione di due terzi dei 23 paesi membri. I paesi arabi o musulmani sono otto e quindi occorrerebbe una maggioranza di 16 voti per ammettere Israele (e magari anche la federazione palestinese). Ma, vedi caso, i voti disponibili sono solamente 15. Questi sofismi consentono l’ignobile e illegale boicottaggio sportivo di Israele da parte dei paesi arabi. Il fatto che ciò venga tollerato sul territorio italiano, e in passato in paesi come la Francia e la Spagna, è vergognoso. I dirigenti che si rendono complici di questo scandalo che snatura lo sport sono o degli sprovveduti perché non hanno saputo evitarlo, o dei pavidi perché non hanno voluto. Sarebbe stato più dignitoso rinunciare all’organizzazione dei giochi piuttosto che sottostare a un ricatto che continua da 60 anni. A Mario Pescante, deputato del PdL, già presidente del Coni, e ora Commissario delegato dal Governo, a Gianni Petrucci, presidente del Coni, a Raffaele Pagnozzi, segretario generale, vogliamo inviare un messaggio chiaro e semplice: né voi né i vostri colleghi sareste al posto in cui vi trovate oggi se non ci fosse stato Della Pergola che con la sua idea ha fatto rinascere lo sport italiano. E al di là di ogni considerazione politica, quanta ingratitudine nei confronti di Massimo Della Pergola, l’ideatore della Sisal che amava Israele.
Sergio
Della Pergola,

demografo, Università Ebraica di Gerusalemme
Sergio Della Pergola  
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  Angela Polacco Donne D'Israele 6 - Angela Polacco
Guida per mestiere e vocazione


Da anni ormai il suo nome affiora qua e là dai reportage in terra d'Israele. Angela Polacco, guida turistica per mestiere e vocazione, si è infatti specializzata in un settore delicatissimo e d'alto impatto mediatico. Quest'energica signora di origine romana da tempo è divenuta la guida preferita di giornalisti, troupe televisive, politici e operatori culturali stranieri. Li accompagna nelle interviste e nelle visite,  li sostiene sul fronte organizzativo, funge da interprete, intermediaria, amica e spalla. E soprattutto li aiuta a decifrare l'enigma appassionante del paese in cui ha  scelto di vivere. Angela, 54 anni e due figli adolescenti, ha lavorato al tempo dell'intifada, della guerra del Libano e di Gaza senza mai incappare in una polemica o in contraddittorio pubblici. Il quarto d'ora di celebrità l'ha conquistato, suo malgrado, a settembre, quando si è ritrovata a guidare la visita a Yad Vashem di monsignor Fisichella e di un gruppo di parlamentari e amministratori italiani. Nella sala che espone il ritratto di papa Pacelli ha spiegato il silenzio intorno allo sterminio di sei milioni di ebrei definendo Pio XII “un Papa controverso”, di cui si sa che “fece scappare molti nazisti”. Ed è poi passata con il gruppo alla sala successiva.
Fisichella al momento non era presente. Qualcuno gli ha però riferito quelle frasi e la bagarre, inevitabile nei mesi delle grandi manovre per la beatificazione di Pio XII, è esplosa su tutti i giornali investendo anche la targa che a Yad Vashem illustra la figura di quel Papa. “E' ora di smetterla con questa storia – ha tuonato il rettore della Pontifica università lateranense - consultino gli archivi. Ci sono nuovi studi, come quello della commissione americana Pave, che dimostrano quanti ebrei abbia salvato il Pontefice. Altro che chiudere gli occhi. in fondo lo sanno anche loro, tanto che sono stati costretti a togliere la lunga descrizione che avevano appeso contro il Sommo Padre”.
Angela, come ti sei sentita al momento delle polemiche?
Stupita, molto. A Yad Vashem ho semplicemente raccontato la storia, il motivo per cui è esposto il ritratto di Pio XII. Qualcuno nella delegazione ha fatto notare che la Chiesa di ebrei ne ha salvati tanti. Ho risposto che per ora è provata l'indifferenza di quel Papa, non il suo contrario, senza perciò nulla togliere all'operato di tanti sacerdoti. Si trattava di una visita ufficiale, dai tempi brevi. E' stata questione di poche frasi e ci siamo spostati nel padiglione successivo. La polemica è stata montata molto dalla stampa, che ha calcato la mano.
Sei rimasta male?
Assolutamente no. Il problema sta nella percezione di chi arriva a Yad Vashem. Nelle sue motivazioni personali, famigliari, negli eventuali sensi di colpa.
Com'è maturata la tua decisione di vivere in Israele?
Non è stata una scelta di quelle classiche, che dai movimenti giovanili ebraici porta all'università o al lavoro in Israele. La mia alyah è maturata sulla spinta di una forte crisi di valori. Sono arrivata nell'85, dopo la vicenda dell'Achille Lauro e dopo l'attentato che a Roma uccise il piccolo Stefano Tachè. Sentivo che l'Italia governata da Craxi e Andreotti non tutelava a sufficienza le sue minoranze religiose. Così ho deciso di andarmene.
Una scelta difficile?
Il distacco è sempre doloroso. Ero molto radicata nella mia città dove per 12 anni avevo insegnato storia e cultura ebraica nella scuola comunitaria. Lasciavo alle spalle una famiglia, gli amici. Avevo però la sensazione di una straordinaria opportunità che mi si apriva davanti.
E il mestiere di guida turistica? E' stata una passione immediata?
Ho iniziato subito il corso all'Università di Gerusalemme. Dovevo cominciare tutto da zero, così ho pensato di restare nel mio campo. Devo dire che all'inizio vedevo questo lavoro soprattutto come un'opportunità d'insegnamento. Poi è scattata la passione.
Con quali criteri guidi i tuoi visitatori alla scoperta del paese?
Sono un po' atipica rispetto altre guide. Non mi limito a spiegare l'architettura o i monumenti. Cerco invece di raccontare il paese, la gente, la società. Le persone arrivano di solito con un'idea preconfezionata d'Israele. Cerco di spiazzare le loro aspettative, di accendere dei dubbi.
Molte delle domande riguarderanno la politica. Come ti comporti in questi casi?
Con grande attenzione, senza esprimere mai le mie posizioni. Non sono lì per fare propaganda.
In questi anni l'interesse rispetto Israele è cambiato?
Oggi la gente si vergogna meno a porre domande ed è più preparata del passato.
Quale aspetto del paese preferisci raccontare?
Mi piace parlare della storia e della società attraverso le testimonianze di persone di culture e religioni diverse. Qui poi non è difficile riandare agli anni Trenta attraverso la viva voce di chi ha vissuto quegli eventi e appena possibile cerco di farlo.
Un posto da visitare assolutamente?
Vado matta per gli scavi archeologici del periodo di Erode, una figura straordinaria. Ma mi piacciono tantissimo anche Gerusalemme, Tel Aviv e i kibbutzim, ciascuno con il suo carattere.
Torni spesso in Italia, che sensazione provi nel confronto tra i due paesi?
Sono molto soddisfatta della scelta che ho fatto. Israele è un luogo in cui sei nella storia, la vivi ogni giorno e ogni giorno sei partecipe di una costruzione comune. L'Italia oggi mi appare statica, un po' depressa.
Eppure si parla spesso di una crisi di valori in atto in Israele.
Non sono d'accordo. Israele è un paese in cui valori sono ancora forti.
Che ruolo può avere l'ebraismo italiano rispetto la realtà israeliana?
La relazione tra i due paesi va mantenuta e fortificata. Tutti noi dovremmo cercare di essere un ponte e un punto di riferimento tra il nostro paese d'origine e Israele valorizzando in modo particolare le prospettive identitarie e culturali.

Daniela Gross



NirensteinConferenza Onu, l'Italia si ritira
Frattini: «Posizioni antisemite»


L’Italia non andrà alla infame conferenza detta Durban 2 cosiddetta «contro il razzismo». L’ha annunciato ieri il ministro Franco Frattini alla ministra israeliana Tzipi Livni ed è una notizia che farà da battistrada al resto d'Europa, da dove, timidamente (dalla Francia, dall’Olanda) nei giorni scorsi, già si levavano voci di sdegno per l’antisemitismo plateale del documento preparatorio.
Frattini ha anche annunciato di aver cancellato per ora il suo previsto incontro con il ministro degli esteri iraniano Manouchehr Mottaki, dopo le parole di negazione della Shoah ripetute a Teheran mercoledì.
Stati Uniti, Canada e Israele erano per ora i soli Stati che avevano avuto il coraggio di dire “no” a un documento di linee programmatiche ispirato dai paesi islamici, specie dalla Libia e dall’Iran, presidente e vicepresidente del comitato preparatorio, che di nuovo inchiodava Israele all’antico slogan del 1975 che fu risoluzione dell’Onu poi cancellata: sionismo eguale razzismo.
La conferenza che si terrà a Ginevra su iniziativa dell’Onu a metà aprile, pur dichiarandosi contro il razzismo, porta ancora invece quell’indelebile marchio di antisemitismo e antiamericanismo che nei giorni della prima conferenza, tenutasi a Durban all’inizio del settembre 2001, fu la rivelazione ideologica dell’odio che portò subito dopo all’11 settembre.
A Durban i delegati di tutti i Paesi del mondo convennero al Palazzo dei Congressi per ascoltare le invettive di Mugabe, di Arafat, di Fidel Castro; le Ong marciavano in cortei che brandivano l’immagine di Bin Laden e dichiaravano Israele «Stato razzista» e «Stato di apartheid». Fu una apocalisse demonizzante che ha lasciato pesanti segni sulla struttura dell’antisemitismo contemporaneo, che, segnando con marchio di criminalizzazione morale Israele e gli ebrei, li rende indegni di vivere, proprio come vorrebbe l’Iran odierno. La preparazione di Durban 2 ha fatto da filo conduttore alla propaganda jihaidista di questi anni e ha reso l’ONU lo zimbello e lo strumento di Stati che lo trasformano in ostaggio di politiche antioccidentali e antidemocratiche, profittando innanzitutto dei 57 Paesi della conferenza islamica e di non allineata memoria, che usano l’educazione antisraeliana e antimericana come collante specie per le giovani generazioni.
L’Italia, che aveva già votato alla Camera all’unanimità una mozione che impegnava il Governo a monitorare la preparazione della conferenza, ha preso la sua decisione, che dimostra che il linguaggio politico internazionale quando è dissennato, quando è pregno di eco jihadiste, quando fa da cassa di risonanza alla politica dell’odio, non trova un consenso mondiale automatico. L’Italia, con il coraggio del primo pioniere europeo, stabilisce qui i limiti del discorso politico decente e ammissibile, e quello antisemita non vi rientra.

Fiamma Nirenstein - Il Giornale - 6 marzo 2009

 
 
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  Michele Sarfatti"1943: quelle disposizioni di Pio XII
non sono ancora compiutamente dimostrate"


I quotidiani italiani e stranieri stanno dando grande risalto a un Memoriale delle Religiose Agostiniane Ven. Monastero dei SS. Quattro Coronati Roma, nel quale è scritto che esse assistettero e protessero ebrei romani da "questo mese di novembre 1943", a seguito di un preciso ordine di Pio XII. La frase esatta è: il papa "ordina che nei Monasteri si dia ospitalità a questi perseguitati, e anche le clausure debbono aderire al desiderio del Sommo Pontefice". Per amor di verità va aggiunto che il Memoriale prosegue affermando: "noi ospitiamo fino al 6 giugno successivo le persone qui elencate"; ne discende che il testo fu steso non meno di sei mesi dopo l'evento iniziale. Che le religiose siano state persone giuste, è fatto indiscutibile. Lo stesso vale per molti altri religiosi. Ma quella loro affermazione assai posteriore sull'origine del loro comportamento potrebbe anche costituire un atto di devozione e fiducia nei confronti del papa; non basta ad asseverare l'esistenza di ciò che possiamo definire un suo vero e proprio "ordine circolare dell'ottobre-novembre 1943". Su di esso, gli storici hanno bisogno di documentazione più probante, che continua a non emergere.

Michele Sarfatti, direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea - Milano 
 
 
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L’Italia non parteciperà alla conferenza dell’Onu sul «razzismo», prevista a Ginevra  tra il 20 e il 24 aprile, se non muterà la sostanza delle affermazioni contenute nelle bozze dei documenti di preparazione all’incontro, laddove prevale un «linguaggio antisemita». Il passaggio maggiormente  “incriminato”  recita testualmente così: «la politica di Israele nei territori palestinesi rappresenta una violazione dei diritti umani, un crimine contro l’umanità e una forma contemporanea di apartheid […]. Esprimiamo preoccupazione per le discriminazioni razziali compiute da Israele contro i palestinesi e i cittadini siriani nel Golan occupato […]. Israele minaccia la pace e la sicurezza». Contestuale  a tale decisione si è consumata anche la scelta del ministro degli Esteri Franco Frattini di non recarsi in visita in Iran, ritenendo inopportuno, dopo le infiammate dichiarazioni contro Gerusalemme pronunciate dalla leadership teheraniana nei giorni scorsi, un incontro con chi nega ad Israele il diritto stesso all’esistenza, facendo inoltre ripetuta professione di negazionismo nei confronti della Shoah. Claudio Rizza su il Messaggero ci racconta le motivazioni addotte dalla Farnesina al riguardo nel mentre Alberto d’Argenio su la Repubblica, Vittorio Zucconi con un articolo di fondo sulla medesima testata, Luigi Offeddu su il Corriere della Sera e Emanuele Novazio su la Stampa ci descrivono la strategia della nuova amministrazione americana verso l’Iran e la Russia, basata sul passaggio dalla netta contrapposizione, fatta propria da Bush, alla mediazione laddove possibile. Per capire come il Medio Oriente stia mutando c’è poi la traduzione di un articolo di Bernard Lewis per il Corriere della Sera, laddove l’illustre islamologo ci parla dell’esistenza di «due società arabe». La cosiddetta Durban II che, già nelle sue premesse, si preannuncia la ripetizione dell’assise che nel 2001 si era tenuta nella città sudafricana, sembra quindi ancora una volta giocarsi sulla messa in mora di Israele, identificata come la fonte delle nequizie universali. Quel che era successo nella passata edizione è noto ai più. Lo scandalo che ne era derivato, laddove il sionismo veniva equiparato al razzismo, non era bastato a fare fronte alla deriva culturale e morale, oltreché ideologica, che l’incontro aveva innescato. La decisione di questi giorni, assunta dall’esecutivo italiano, fa seguito alla mozione approvata a grandissima maggioranza dai parlamentari di Montecitorio il 4 dicembre scorso, nella quale si invitava ad assumere la «massima vigilanza» verso le iniziative che avrebbero portato alla realizzazione della Conferenza medesima. Fiamma Nirenstein, che si era fatta a suo tempo promotrice della mozione stessa, racconta su il Giornale il contesto in cui si consumò la conferenza del 2001 e i rischi di quella prossima ventura. Peraltro della decisione di non andare a quella fiera della tracotanza ne danno notizia un po’ tutti i quotidiani. Tra le altre si segnalano le firme di Vincenzo Nigro su la Repubblica, di Maurizio Caprara su il Corriere della Sera, Luisa Arezzo su Liberal, Anna Momigliano su il Riformista. Lo stesso Corriere della Sera, per la mano di Pierluigi Battista, ci offre nell’articolo dedicato a «una questione di principio» alcuni spunti di riflessione nel merito della scelta fatta dall’Italia mentre Piero Fassino, su la Stampa, pur condividendo in linea di principio la decisione governativa, chiede una discussione parlamentare al riguardo. Peraltro nel centrosinistra, dove pure prevalgono gli assensi, le voci non sono tutte concordi o, quanto meno, sulla stessa lunghezza d’onda, manifestando accenti e sensibilità diverse, legate gli uni e le altre anche alla considerazione della necessità di fare sì che l’Italia possa comunque svolgere un ruolo non troppo defilato nello scenario mediorientale. Ce ne dà conto ancora una volta Maurizio Caprara sempre su il Corriere della Sera. Nel suo stile battagliero il Foglio si compiace invece della decisione delle autorità, commentando che «l’onore stesso della cultura dei diritti umani imponeva il boicottaggio» di Durban II. Su un piano di lettura invece completamente opposto si pongono Alberto D’Argenzio, che pure firma su il Manifesto un articolo, ancorché polemico, piuttosto descrittivo e Michelangelo Cocco che, sempre la medesima testata rilegge i retroscena del diniego del nostro governo alla luce di un giudizio ad esso avverso.
Detto questo, ovverosia affrontata la notizia del giorno, possiamo soffermarci su alcuni aspetti per così dire di contorno e che tuttavia, sia pure nel loro minore impatto, molto hanno a che fare sul come si costruisce il giudizio di senso comune (non meno del pregiudizio). Per la serie che demanda all’equivocità delle informazioni (che di per sé non sono mai neutre, dipendendo molto da come sono presentate al grande pubblico) si legga allora il trafiletto su la Repubblica dove si dice che «il Papa visiterà un campo profughi e Yad Vashem». (Per dovere di cronaca diciamo che la stessa notizia è ripresa su Libero da Caterina Maniaci.) Riferendosi al viaggio previsto per la primavera oramai incipiente di Benedetto XVI in «Terra Santa» (altra espressione comunemente accetta ma che in sé ha i caratteri di una identificazione ideologica e culturale precisa) si dà notizia del fatto che il Pontefice avrà modo di andare sia in un campo palestinese, nei pressi di Betlemme, sia al memoriale della Shoah di Gerusalemme. L’accostamento, che pare casuale, a ben pensarci tale poi non è, stabilendo, nella mente del lettore, un nesso di congruità e di simmetricità, che può poi trasformarsi in un giudizio di omologazione, tra il dramma di quanti, tra i palestinesi, non hanno potuto mai trovare una stabile sistemazione dopo l’abbandono delle loro terre d’origine tra il 1947 e il 1967, e la tragedia di coloro che furono assassinati nelle camere a gas. Il lettore avveduto non voglia cogliere in questo rilievo la volontà di alimentare una polemica sgradevole. Non si tratta di stabilire un primazia della sofferenza ma, per l’appunto, di evitare le facili ancorché indebite, e quindi illegittime, associazioni tra una vicenda storica e l’altra. Poiché la confusione sul passato, l’incapacità di stabilire ragionevoli dimensioni di grandezza e di importanza rispetto ai fatti trascorsi, quindi l’impossibilità di determinare scale di rilevanza (un conto è perdere alcuni beni materiali, un altro è vedere distrutta integralmente la propria famiglia), sta alla base della confusione di giudizio sull’oggi e, in prospettiva, sul futuro. Le notizie, diceva qualcuno, non sono mai innocenti. Il modo in cui le si presenta, ci permettiamo di aggiungere, le fa poi a volte un poco colpevoli. Poiché, come altri aggiungerebbero, il diavolo sta sempre nei particolari, tra le pieghe del discorso insomma. Ancora sul piano della qualità e della natura della comunicazione si legga l’articolo di Piero Sansonetti su il Riformista, dove l’autore polemizza con il linguaggio adottato da certe testate riguardo alle vicende legate ad alcuni casi di stupro attribuiti a cittadini extracomunitari (in particolare dove si parla, più o meno esplicitamente, di «dna romeno»). Si può assentire o meno su quanto va affermando nel suo complesso Sansonetti, soprattutto riguardo alla polemica con i colleghi di  altri quotidiani. Purtuttavia una parte delle sue considerazioni si riallacciano proprio a quanto andavamo dicendo in esordio di rassegna, ricordando per l’appunto le legittime ragioni del diniego italiano riguardo alla prossima conferenza di Ginevra.
Infine, quanto meno per rendere atto dell’ammirevole acribia con la quale c’è chi si sforza di trovare attenuanti e legittimazioni alla condotta di Pio XII durante gli anni della Shoah, si veda l’articolo di Andrea Tornielli su il Giornale che riprende un appunto di Pacelli, riportato sul diario delle Consulte, dove alla data del 1° novembre 1943 risulta che il Papa «s’è anche interessato al bene degli ebrei». Quelli romani erano peraltro già partiti da due settimane «verso ignota destinazione».

Claudio Vercelli

 
 
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Durban II, Ong ebraica-americana elogia l'Italia                              
New York, 5 mar -
"L'Italia manda un messaggio chiaro, le democrazie del mondo non permetteranno che la battaglia contro il razzismo sia distorta da quanti vogliono stigmatizzare Israele e imporre un codice globale blasfemo" – così Glen Lewy, presidente nazionale dell'Anti Defamation League (Adl - oraganizzazione ebraica-americana), e il direttore nazionale dell'organizzazione, Abraham Foxman, hanno commentato la decisione del governo italiano di ritirarsi dalla conferenza Onu sul razzismo Durban II, in programma in Aprile a Ginevra. La Ong ebraica-americana ha elogiato, in una lettera inviata al ministro degli Esteri Franco Frattini, il governo italiano per aver "riconosciuto che l'esito della Conferenza di Revisione di Durban non può essere salvato". Fra i paesi che si sono già ritirati dalla conferenza Durban II, oltre all'Italia, Stati Uniti, Canada, Israele e Olanda.


Riprodotta la scrittura di Gilad Shalit,
sui giornali israeliani il grido di “Aiuto”
Tel Aviv, 6 mar -
"Realizzare una nuova campagna di sensibilizzazione per indurre il governo israeliano a portare a termine i negoziati indiretti con Hamas per la restituzione di Gilad Shalit". Questa l'intenzione della famiglia del soldato rapito.
Nel contesto di questa campagna, uno studio pubblicitario ha ricreato sul computer la calligrafia di Gilad Shalit, così come appare in un messaggio inoltrato dalla prigionia. Ne è nata così la scritta “Aiuto”, scritta a mano e in ebraico corsivo. Questo grido di “Aiuto” campeggia vistosamente sulle prime pagine dei giornali israeliani assieme con l'immagine di Gilad Shalit. Presto apparirà anche nelle strade di Israele e sugli autobus di linea. Ma i familiari di Gilad Shalit vanno oltre, progettano anche di trasferirsi in una tenda a Gerusalemme per accrescere le pressioni sul governo. Da parte sua il quotidiano arabo al-Hayat conferma che la settimana scorsa un dirigente di Hamas, Mussa Abu Marzuk, è discretamente entrato a Gaza proveniente da Damasco (con il tacito assenso di Israele) per incontrare il comandante del braccio armato di Hamas, Ahmed Jaabri, che custodisce il prigioniero israeliano. Questi ha ribadito l'atteggiamento rigido di Hamas sullo scambio dei prigionieri. "Prima di essere libero - ha previsto Jaabri, secondo il giornale - Shalit parlerà bene l'arabo".
 
 
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