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    11 febbraio 2009 - 17 Shevat 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  alfonso arbib Alfonso
Arbib,

rabbino capo
di Milano
Nel momento che precede il passaggio del Mar Rosso da parte del popolo ebraico, assistiamo a una strana conversazione tra Dio e Moshè. Moshè
prega per la salvezza del popolo e Dio gli risponde di non pregare e di dire al popolo di partire. Il midràsh dà due spiegazioni diverse di ciò che dice Dio. 1) La tua preghiera non è necessaria perché c'è già stata la preghiera del popolo ebraico. 2) Non è il momento di pregare ma di agire. Il popolo deve partire, cioè deve dimostrare la propria fiducia
in Dio entrando in acqua. Comune alle due  spiegazioni è la richiesta a Moshè di tenersi in disparte e di lasciare l'iniziativa al popolo ebraico. Secondo R. Simcha Hacohen di Dvinsk, nel passaggio del mare, Moshè non è alla testa del popolo ma nella retrovia. In questa stessa parashà abbiamo due "eroi", uno negativo e uno positivo: il
faraone e Moshè. Il primo è alla testa d tutto il suo popolo all'inseguimento degli ebrei. Moshè invece segue il popolo che entra nelle acque che si aprono al suo passaggio. Il faraone sembra molto più eroico di Moshè eppure è vero il contrario. Il faraone è sì alla testa del suo popolo ma lo strumentalizza per i suoi fini e lo porta alla rovina. Moshè è invece un leader che è capace di condurre il popolo e di stare alla sua testa in molte situazioni ma anche a mettersi in disparte quando è necessario per far emergere le qualità della collettività.
Sessanta leader delle maggiori organizzazioni ebraiche si sono recati a Capitol Hill per premere su deputati e senatori a favore di una rapida approvazione del pacchetto di stimoli economici contro la recessione. In passato simili blitz politici sono avvenuti per sostenere la sicurezza di Israele, combattere l'antisemitismo o affermare i principi della divisione fra Stato e Chiesa. Ma in questo periodo l'emergenza che assedia le comunità americane è la povertà, che sta flagellando il ceto medio. Basti pensare che in alcune aree della California, della Florida e del Mid-West si registrano numerosi casi di ex benefattori obbligati a ricorrere ai voucher governativi per il cibo. Maurizio Molinari,
giornalista
molinari  
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  elezioniNel futuro una instabile coalizione

 Israele seguita a sognare la pace, ma con cautela, e teme alquanto i passi falsi. E' questa la prima conclusione che possiamo trarre dalle proiezioni che danno la vittoria a Kadima, ma in un testa a testa tale con Netanyahu, che si potrebbe dire che ambedue hanno vinto le elezioni. Adesso Peres non ha davvero un compito facile nel conferire l'incarico di governo, che in Israele si dà a chi ha più possibilità di formare una coalizione. E una coalizione di destra oggi conterebbe 63 seggi contro 57. Con un graffio finale da grande tigre, porta a porta, telefonata dopo telefonata, macinando chilometri e sforzandosi di spremere la sua scarsa giovialità, Tzipi Livni ha strappato per due punti la vittoria a Bibi Netanyahu. E Bibi, investito dalla sfortuna di trovarsi appiccicata addosso la destra fondamentilista di Feiglin e poi divedersi contendere i voti da Lieberman, adesso deve inghiottire una sconfitta inaspettata, se si pensa che solo un mese fa aveva almeno cinque punti in più. Lieberman, il concorrente novità, considerato di estrema destra, prende 14 seggi, un numero che ne fa l'ago della bilancia, ma con minore forza del previsto. Barak con 13 seggi registra un insuccesso, ma riporta l'altalena in equilibrio, e così accade con Shas a destra, 9 seggi, e con i 5 del Meretz, di estrema sinistra. Le componenti della vittoria della Livni sono legate prima di tutto al fatto di essersi posta al centro del panorama, ottendo così consensi a destra e a sinistra, per la pace e contro il terrorismo; in secondo luogo, la Livni è un personaggio pulito rispetto alle marea di avvisi di garanzia che fluttuano sul mondo politico israeliano; poi, si è legata alla speranza, testimoniata da anni di indagini sull'aspirazione alla pace, che si possa trovare una soluzione al conflitto israelo-palestinese; l'ha aiutata il sostegno femminile a una candidata colta, intelligente, e anche dura col nemico; e infine ha pesato la preoccupazione che Netanyahu non sarebbe andato d'accordo con la nuova  amministrazione di Barack Obama, che spingerà verso una road map consueta, terra in cambio di pace. Netanyahu ieri notte ha ripetuto che nonostante tutto sarà lui il prossimo primo ministro. Affermazione basata sul fatto che la destra è comunque cresciuta moltissimo in risposta alla minaccia nucleare iraniana. E presto per capire se il risultato sia positivo per il futuro del Medio Oriente. Esso è destinato in prima istanza a rallegrare coloro che immaginano che la destra sia una disgrazia per la pace nonostante la performance di Sharon con Gaza e anche di Netnayhau a Wye Plantation, e a restituire legittimità a Israele dopo la guerra. Ma i due maggiori contendenti, nonostante la vittoria di Livni, sono talmente vicini da non potere fare a meno l'uno dell'altro. Kadima deve tenere conto del grande, oggettivo bisogno di Israele di sentirsi difesa dai pericoli che la circondano e il Likud, per converso, se Netanyahu divenisse il nuovo premier si  troverebbe di fronte un'opposizione portatrice di un'aspirazione immediata alla pace. Gli ostacoli che i due possono porre l'uno all'altro possono risultare paralizzanti. In questa situazione, o si va a un difficile governo di coalizione, o a una situazione di instabilità che potrebbe portare presto a nuove elezioni.

Fiamma Nirenstein, Il Giornale, 11 febbraio 2009

"Generazione Rabin" confusa alle urne
Parola d'ordine: balagàn. Caos, confusione, dubbio, sconcerto. In altre parole, casino. Questa volta i proverbiali giovani israeliani di sinistra, che per anni sono stati l'anima viva del movimento pacifista, non sanno dove sbattere la testa. Come ha votato ieri la «generazione Rabin»? Quelli che hanno seguito Yitzhak Rabin nelle piazze degli anni Novanta, che nel 2000 hanno votato Barak «perché Ehud ci tirerà fuori dal Libano», alcuni dei quali nel 2006 hanno votato Olmert, magari turandosi il naso perché «Ehud ci metterà tutti a nanna e ci darà la pace degli stanchi», come diceva il giovane scrittore Etgar Keret. E' già da un po' di tempo che il movimento pacifista israeliano arranca. Ma stavolta sembra proprio alla frutta: indeciso, in parte arrabbiato, ma soprattutto deluso dal cosiddetto «Campo della Pace», quella galassia di partiti e movimenti di sinistra (il Labour, Meretz, l'associazione Peace Now) nata per sostenere la Roadmap. In parte la stanchezza è demografica: molti dei ragazzi che hanno seguito Rabin nel periodo d'oro del movimento pacifista adesso hanno più di 30 anni. Il che in Israele significa avere messo su famiglia e guardare tutto da un altro punto di vista: «A un certo punto cambia la prospettiva, pensi ai razzi sulle scuole e cominci a renderti conto che la sicurezza è una cosa importantissima» racconta Dvorah Fitoussi, classe 1978. Militava nel  movimento giovanile del Meretz, ma la sera prima delle elezioni non aveva ancora le idee chiare su come votare. Il «campo della pace» sta subendo una vera e propria emorragia di voti. E questo è evidente soprattutto nella Tel Aviv cool, tra i giovani laici e progressisti che finora erano il bacino d'utenza preferito del Labour ma soprattutto del Meretz, il partito sionista ma pacifista, social-democratico ma libertario, che recentemente si è fuso con il nuovo movimento, cioè il partito degli scrittori di Amos Oz e compagnia. I delusi del Meretz si sono spostati a destra o a sinistra? Difficile a dirsi: «Mai vista una confusione del genere» dice al Rformista Lisa Goldman, autrice di uno dei blog israeliani più seguiti (Al ha-panim/ On the Face). «Conosco tanta gente che per anni ha sostenuto il Meretz e questa volta ha votato Hadash», ossia il partito comunista anti-sionista, che un tempo si rivolgeva soprattutto agli arabi israeliani, ma che adesso sta facendo una campagna tutta indirizzata alla gioventù dorata di Tel Aviv. In parte per superare la perdita di consensi tra gli arabi, in parte per sfruttare la debolezza del Meretz. Il messaggio è: noi siamo gli unici davvero contro la guerra. Dall'altro lato conosco anche gente che ha sempre votato a sinistra, persino per Hadash, che questa volta ha scelto Kadima. Non perché amino Tzipi Livni, ma perché hanno paura di ritrovarsi con la destra al governo», prosegue la blogger. «L'unica cosa chiara e che il Pea ce Camp ha deluso molti». L'impressione è che ci sia una polarizzazione. Da un lato chi non crede più nella vecchia Roadmap perché è convinto che gli arabi non vogliano la pace o che comunque manchino le condizioni: meglio allora votare Kadima, che propone un processo di pace pragmatico, e all'occorrenza unilaterale. Ma poi c'è anche il voto di protesta che si dirige alla sinistra anti-sionista, deluso dal fatto che la sinistra sionista abbia sostenuto (anche se con molte riserve) gli interventi in Libano e a Gaza. Una tendenza che ha notato la blogosfera giovane ma anche la stampa adulta e vaccinata: «Il Meretz è alle corde. Barak e Livni lo stanno cannibalizzando da destra, Hadash si prende quel che resta» scriveva Ari Shavit su Haaretz. Il pacifismo sionista è in crisi: non c'è più una generazione Rabin, quel che resta è una generazione balagàn.

Anna Momigliano, Il Riformista, 11 febbraio 2009

L'America preme "Ora pace subito coi palestinesi"
Chiunque sarà il nuovo premier israeliano ha di fronte un’agenda che lo porterà a lavorare in fretta assieme al presidente Obama: è questa l’opinione prevalente fra gli esperti di Medio Oriente a Washington, secondo cui «fare la pace coi palestinesi» e «impedire all’Iran di avere la bomba» si profilano come «due pragmatici terreni d’incontro».
«Il nuovo primo ministro israeliano verrà presto a Washington per parlare della pace con i palestinesi», prevede Martin Indyk, ex ambasciatore Usa a Gerusalemme e consigliere di Barack Obama sul Medio Oriente, che ricorda come «pur dicendosi contrario a smantellare gli insediamenti in Cisgiordania Benjamin Netanyahu nel 1996 si accordò con Bill Clinton quando decise di restituire la città di Hebron sfidando lo zoccolo duro del Likud». Simile l’opinione di David Schanzer, ex feluca dell’amministrazione Bush e autore del libro «Fatah contro Hamas», secondo il quale «l’unica cosa certa è che ad aprile il nuovo premier di Gerusalemme verrà in città, prenderà posto alla Blair House, andrà nello Studio Ovale e parlerà di pace con i palestinesi».
Per Aaron David Miller, che ha affiancato sette segretari di Stato sul Medio Oriente ultimo dei quali Colin Powell, «la dinamica iniziale con Obama è già scritta, dovranno decidere come affrontare il percorso che porta all’obiettivo della nascita di uno Stato palestinese in pace e sicurezza a fianco di Israele». «Cominceranno probabilmente dai palestinesi ma il binario più veloce potrebbe essere quello siriano», osserva però Indyk, secondo cui «il premier di Gerusalemme potrebbe avere interesse ad accelerare il negoziato con la Siria per allentare la prevedibile pressione americana sulla Cisgiordania». Miller è d’accordo: «La differenza sta nel fatto che mentre fra Israele e Siria c’è già un’intesa di massima sul possibile accordo di pace, mentre nel caso dei palestinesi siamo molto più lontani». Oltre al fatto che in questo frangente Obama potrebbe aver interesse ad accelerare il distacco della Siria dall’Iran facendo proprio leva sulla normalizzazione dei rapporti con Israele, magari grazie al sostegno dei reali sauditi.
Se il percorso del negoziato con i palestinesi appare più difficile agli esperti americani di Medio Oriente è a causa della debolezza del presidente Abu Mazen, il cui mandato è peraltro scaduto. «Poco tempo fa Olmert gli ha offerto lo stesso accordo che Barak propose ad Arafat a Camp David nel 2000, ma Abu Mazen ha rifiutato perché non se la sentiva di firmare senza il consenso di Hamas», osserva Indyk e Schanzer va oltre: «Fino a quando vi saranno due governi palestinesi il negoziato per lo status definitivo dei rapporti con Israele sarà impossibile». Da qui l’ipotesi, avanzata da Miller, che il primo compito dell’inviato George Mitchell sia quello di «far emergere una riconciliazione fra i palestinesi» che consenta ad Abu Mazen di estendere nuovamente il proprio controllo sulla Striscia di Gaza, «magari con il sostegno dell’Egitto e anche della Siria» se si riuscirà a recuperare Damasco al «campo della pace».
Resta infine l’incognita dell’Iran. «Tzipi Livni e Benjamin Netanyahu hanno promesso agli elettori che non consentiranno a Teheran di avere armi nucleari ma vi sono molte maniere per riuscirvi», osserva Schanzer, secondo cui «Obama persegue con la diplomazia lo stesso obiettivo che Israele potrebbe raggiungere con un blitz simile a quello che  distrusse due anni fa il reattore atomico siriano».
Agenda bilaterale a parte, Indyk dà un consiglio al presidente americano: «Bisogna essere molto flessibili, fare attenzione a non imporre niente a nessuno pensando piuttosto a esercitare l’influenza strategica degli Stati Uniti al momento giusto perché i successi in Medio Oriente arrivano quando si riescono a sfruttare le opportunità che si presentano improvvise, come fece Jimmy Carter quando Anwar Sadat disse che sarebbe andato a Gerusalemme da Menachem Begin e Clinton quando seppe che Yitzhak Rabin stava negoziando con Yasser Arafat in Norvegia senza dircelo».

Maurizio Molinari, La Stampa, 11 febbraio 2009

 
 
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  ugo volli"Ma chi l'ha detto che siamo di sinistra?"

La settimana scorsa Moked ha pubblicato un ritratto della giornalista israeliana Amira Hass, suscitando una risposta polemica da parte di Davide Nizza, che condivido integralmente. Agli occhi di chi come me studia le relazioni fra i modi di comunicare e i significati trasmessi, in quell’intervista colpiva però un passaggio in cui la Hass affermava questa catena di concetti: in quanto figlia di sopravvissuti della Shoà, era stata educata all’eguaglianza, quindi era di sinistra e di conseguenza aveva deciso di mettersi dalla parte dei palestinesi, almeno dalla loro parte della barriera di sicurezza. E’ una catena di ragionamenti molto interessante, anche perché molto condivisa, al di là della vicenda umana della giornalista di Haaretz. Vale la pena di analizzarla con la velocità, ma anche la necessaria superficialità caratteristica di una rubrica come questa.

Che essere di sinistra voglia dire essere coi palestinesi, con gli arabi, con gli islamici ecc. (e dunque, se non giochiamo con le parole, contro Israele) lo vediamo da cinquant’anni su tutte le piazze del mondo e abbiamo appena finito di rivederlo le scorse settimane. Sarebbe bene che chi si sente di sinistra si chiedesse perché. Per i contenuti culturali del Corano (le pene corporali, la discriminazione o peggio di donne e omosessuali ecc.)? Sfogliando il classico libretto di Bobbio su destra e sinistra mi sembra difficile. Perché i palestinesi e in generale gli arabi sono gli oppressi? Intanto bisognerebbe chiedersi perché e da chi sono oppressi, chi si tenga al potere con la violenza e la tortura, chi non divida i proventi del petrolio. E poi sarebbe una buona ragione per approvare chi come Bush aveva il programma – un po’ ideologico, lo ammetto – di risolvere la questione del Medio Oriente importando la democrazia nel mondo arabo.

Ma qualcuno ha mai fatto manifestazioni bruciando la bandiera del Libano, dove ai profughi sono interdetti 54 tipi di lavoro, non possono avere la cittadinanza anche se nati nel paese ecc. ? O ha bruciato le bandiere dell’islamico Sudan per quel che combina in Darfur? Sono discorsi fatti molte volte, non mi ci fermo. Forse la risposta sta invece nella leniniana “politica delle alleanze” contro il nemico Occidente, che dopo la caduta del comunismo è diventata identificazione con tutti quelli che Toni Negri chiama “la moltitudine”. Qualunque cosa, purché contraria alla democrazia e al libero mercato. Ma a qualcuno piacerebbe vivere alla maniera siriana, pakistana o iraniana invece che in quella del corrotto e oppressivo Occidente che c’è qui e in Israele? Anche Amira Hass, per qualche misteriosa ragione ha i tubi dell’acqua più grossi, come ammette; ma soprattutto nessuno le fa portare il velo o le butta l’acido in faccia se vuole andare a studiare, come accade alle ragazze afgane…

Più interessante sul piano del significato delle parole è chiedersi perché l’ebraismo dovrebbe identificarsi con la sinistra e questa con “l’uguaglianza”. E’ un’identità spesso proclamata, ammetto di averlo fatto anch’io per anni da ragazzo. Nella Torah e nei profeti ci sono straordinari spunti di giustizia sociale, questo è pacifico. Ma giustizia e eguaglianza sono concetti molto diversi. Kadosh, una parola chiave del nostro linguaggio religioso, prima ancora che la santità indica la distinzione, la differenza. Il nome dei farisei, da cui deriva il nostro ebraismo dell’esilio, probabilmente rimanda anch’esso alla distinzione. E le nostre regole alimentari, sui tessuti e sui semi da non mescolare, sui regimi matrimoniali di levim e kohanim, perfino la restituzione dei territori ai proprietari originali nel giubileo, ecc. ecc.: tutto questo richiama evidentemente all’idea  fondamentale che persone e cose hanno una loro identità che non va confusa, nonostante le ragioni di funzionalità. Del resto, non siamo accusati da sempre perché non ci mescoliamo agli altri, perché siamo ostinatamente diversi? Il tema è infinitamente più complesso di quel che si può dire qui, ma è difficile sostenere che l’ebraismo debba per definizione essere identificato con l’eguaglianza – o peraltro con qualunque altra definizione di sinistra, si tratti di anticapitalismo, pacifismo, vicinanza a chi lavora o anche realizzazione della giustizia in terra.

E allora, qual è la ragione di questa identificazione così radicata, che fa gridare autorevoli esponenti dell’ebraismo in Israele e anche in Italia al tradimento dell’identità di fronte a un sionismo nazionalista e antisocialista come quello che viene da Jabotinski, o alle alleanze “innaturali” che sono state talvolta praticate con forze politiche di destra? Non certo il fatto di essere stati trattati bene dalla tradizione socialista: basta guardare alle parole di Marx, Bauer e tanti altri e soprattutto agli atti di Stalin e dei suoi dipendenti per capirlo. Una ipotesi che mi posso fare è che sia prevalsa la logica secondo cui i nemici dei miei nemici sono i miei amici. Perseguitati dalla Chiesa, dallo Zar, dal nazifascismo, in genere dai potenti, l’ebraismo ha scelto storicamente di allearsi con una sinistra che non era al potere e ha mantenuto l’alleanza fino a oggi. L’altra ragione è che il nostro popolo ha una certa propensione a immaginare l’arrivo del Messia come il rovesciamento della legge, ma anche delle leggi dell’economia, una rigenerazione completa dell’uomo come ha insegnato Scholem, e il socialismo ad alcuni è sembrato un ragionevole surrogato del Messia.

Ma oggi i nemici sono cambiati e così i loro nemici. E dunque è ragionevole cambiare alleanze. E il socialismo si è mostrato come un falso Messia, disastroso per noi e per il mondo ben più di Shabbetai Zvi. E allora bisogna chiedere ad Amira Hass e a tutti i suoi più o meno morbidi compagni di idee: non sarà che vi siete fatti mettere in trappola da un’associazione puramente verbale? Non siete rimasti intrappolati in parole vecchie che non corrispondono più alla realtà? Le parole contano, per il bene, ma soprattutto per il male.

Ugo Volli, semiologo
 
 
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«Testa a testa» (Sole e Repubblica), «Contesa sulla vittoria» (Corriere), «Governo incerto» (Stampa). E’ l’incertezza a dominare le prime il giorno dopo le elezioni in Israele.
Vince Kadima, vince Tzipi Livni, vincono le destre. Ma il distacco sul Likud di Bibi Nethanyahu è di un seggio (28 a 27), non è chiaro chi formerà il governo, e si va verso un esecutivo di coalizione. Il martedì elettorale (quasi 65% al voto) regala a Israele uno scenario aperto: esultano tutti, per qualche motivo. Solo il Labour è sconfitto.
Esulta Tzipi, per prima, perché ha coronato il lavoro di mesi difficilissimi riuscendo a rimontare ciò che nessuno prevedeva. Esulta Nethanyahu: ne ha meno diritto, perché i sondaggi lo davano più forte, ma il Likud è cresciuto molto, da 12 a 19 seggi. Esulta Lieberman, perché il suo Beitenu ha ottenuto 15 seggi ed è diventato il terzo partito del paese, scalzando il Labour.

«Si sa chi ha vinto, non si sa bene chi ha perso», scrive Francesco Battistini sul Corriere. «Per la prima volta dai tempi di Golda Meir - continua - una donna alza le braccia la sera del voto e già s’incorona: se sarò premier, dice a metà serata Tzipi Livni, ‘mi piacerebbe avere vicino sia Nethanyahu che Barak’». Ora la palla passa al presidente Shimon Peres: si va verso un governo di coalizione, e le ipotesi sono varie. Forse il nodo centrale è proprio sul primo ministro: Tzipi chiede la nomina per il vantaggio, ma contando i seggi delle destre alla Knesset è Bibi a varcare la soglia della maggioranza. «Per avere la maggioranza sicura - scrive il Foglio - Kadima punterà all’intesa laboriosa con la destra di Nethanyau e forse di Lieberman. Ma l’impatto potrebbe essere comunque positivo».

Per la stampa israeliana i risultati delle elezioni hanno creato un «pasticcio politico». Yedioth Aharonot apre la prima con due grandi fotografie della Livni e di Netanyahu che dicono la stessa frase: «Ho vinto io». Anche su Maariv le foto dei due leader politici: su quella della Livni è scritto «Suo è il capovolgimento» (rispetto ai sondaggi); su quella di Netanayhu è scritto: «Sua è la maggioranza». «Livni sorprende, ma Netanyahu prepara un blocco ostruzionista» titola Haaretz.

Il presidente palestinese Abu Mazen (intervistato da Alix Van Buren su Repubblica) apre al dialogo, da Roma, con «qualsiasi governo emerga in Israele». Maurizio Molinari sulla Stampa spiega invece come negli Stati Uniti è chiara l’idea che «chiunque sarà il nuovo premier israeliano ha di fronte un’agenda che lo porterà a lavorare in fretta assieme al presidente Obama» per la pace con i palestinesi.

«I due maggiori contendenti - scrive Fiamma Nirenstein in un’editoriale sul Giornale - sono talmente vicini da non potere fare a meno l’uno dell’altro». Haaretz riflette sull’andamento della partecipazione al voto e poi spiega che «ora è il momento di confluire» in una coalizione. Ancora, in un altro pezzo, Haaretz si concentra sulle diversità tre i poli, e analizza la sconfitta laburista: «Dal 1977 - si legge - la generazione che ereditato il Labour non è riuscita ad aprire gli occhi e vedere la realtà che cambiava».

Beniamino Pagliaro

 
 
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Israele alle urne: la stampa palestinese è pessimista                        Gerusalemme, 11 feb -
La stampa palestinese non ha reagito postivamente ai risultati delle elezioni israeliane. Secondo 'Al Quds', il maggiore quotidiano diffuso nei territori palestinesi, "ora si assisterà a un proseguimento della paralisi politica che ha caratterizzato il governo Olmert dalla guerra in Libano nel 2006". Per evitare che tutte le iniziative arabe e internazionali per una soluzione negoziata del conflitto israelo-palestinese siano accantonate fino all'emergere di una nuova situazione, secondo quanto scrive Al Quds, è ora necessaria un'azione diplomatica araba e soprattutto del presidente Usa, Barack Obama, per uscire da una situazione di stallo causata dai risultati delle elezioni israeliane.    Per 'Al Hayat Al Jadida', organo dell'Autorità nazionale palestinese, non c'é in realtà alcuna reale differenza, se non di nome, tra i partiti israeliani e ciò che si può prevedere é perciò il proseguimento della politica israeliana di  "morte, distruzioni e colonizzazione". Perciò, a parere del giornale, continueranno l'espansione degli insediamenti, la demolizione di case a Gerusalemme est e gli attacchi nella
Striscia di Gaza.


Israele alle urne: Iran si rifiuta di commentare i risultati
Teheran, 11 feb -
Il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, Hassan Qashqavi, ha oggi affermato che l'Iran non ha alcuna intenzione di commentare i risultati delle elezioni israeliane, che peraltro non cambieranno la posizione della Repubblica islamica sul non-diritto all'esistenza dello Stato ebraico.  "La posizione dell'Iran sulla legittimità del regime sionista è chiara e non cambierà", ha detto Qashqavi, citato dall'agenzia Fars. "Le elezioni - ha aggiunto il portavoce - riguardano solo loro e non ho intenzione di esprimere alcun punto di vista".

Gerusalemme: sondaggio Lega Anti Diffamazione per 1/3 europei crisi colpa di ebrei
Gerusalemme, 11 feb -
Secondo un nuovo sondaggio condotto dalla Lega contro la Diffamazione (ADL) circa un terzo degli abitanti di sette stati europei (Austria, Gran Bretagna, Francia, Germania, Ungheria, Polonia, Spagna) pensano che gli ebrei operanti nella finanza siano responsabili della crisi finanziaria che sta devastando le economie del mondo. Più del 40% degli europei inoltre pensano che gli ebrei abbiano troppo potere nel mondo degli affari: più di metà degli interpellati in Ungheria, Spagna e Polonia hanno detto di essere di questo parere. I risultati non sono sostanzialmente diversi da quello di un altro sondaggio condotto nel 2007. "I sondaggi confermano che l'antisemitismo è ancora vivo e forte nella mente di molti europei" ha detto Abraham Foxman, direttore dell' ADL. "E' sconfortante constatare - ha continuato - che non c'é una presa di distanza da tenaci pregiudizi antisemitici, con accuse agli ebrei di slealtà e di responsabilità per la morte di di Gesù". "E' particolarmente allarmante il fatto che vi sia la forte convinzione di un'eccessiva influenza ebraica nel modo della finanza e degli affari sull'onda dell'attuale crisi finanziaria mondiale" ha concluso Foxman.
 
 
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