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    6 gennaio 2009 - 10 Tevet 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Roberto Della Rocca Roberto
Della Rocca,

rabbino 
Oggi, decimo giorno del mese di Tevèt, celebriamo il digiuno istituito per l'assedio di Gerusalemme da parte dei Babilonesi, continuato per tre anni, che segnò l'inizio della tragedia del popolo ebraico con la distruzione del primo Tempio e l'inizio dell'esilio. Non è casuale che il Rabbinato Centrale dello Stato di Israele, alla fine degli anni ‘50, abbia proposto di associare questa data alla commemorazione e alla recitazione del Kaddìsh per le vittime della Shoà di cui resta ignota la data della morte. Questa coniugazione di date, oltre a ribadire quanto tutti gli avvenimenti della nostra storia siano concatenati, costituisce una dolorosa supplica al Creatore perché la Shoà sia l' ultima delle tragedie vissute dal popolo ebraico iniziate proprio il 10 di Tevèt di 26 secoli fa. A queste due tragiche esperienze trascorse, quest’anno si aggiunge la nostra angoscia per la situazione di pericolo in cui versano i nostri fratelli nello Stato di Israele. Un' angoscia che ancora una volta cerca conforto e speranza nel digiuno, nella lettura di Salmi e preghiere dedicati, senza mai offendere simboli e valori di altre culture. 
Seguo con ovvia apprensione quanto sta accadendo a Gaza e in Eretz Israele. Cerco, per quanto mi riesca, di distinguere le mie valutazioni politiche dagli impulsi e dai sentimenti. Ogni civile che muore è per me una pena tremenda. Ogni soldato israeliano uno strazio: hanno l'età dei miei figli. Provo ad allontanare un poco l'obiettivo del mio sguardo, e allora vengono le riflessioni. E le preoccupazioni. Su Barack Obama, ad esempio. Reduce da una campagna elettorale fra le più "estroverse" della storia (e non solo americana), ricordo il neopresidente americano nel suo tour in Europa e Medio Oriente. Non fu certo avaro di dichiarazioni. Adesso, a due settimane dall'insediamento,si trincera nel silenzio. Perché? Non mi pare un buon segno. Certo non sul profilo dell'impegno e della personalità. Ero così fiduciosa, in e verso di lui. Speriamo in bene. Elena Loewenthal ,
scrittrice
Elena Loewenthal  
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  Renzo Gattegna Renzo Gattegna: “La crisi di Gaza
e gli ebrei italiani. Facciamo chiarezza”.

La crisi mediorientale e gli ebrei italiani. Emozioni, tensioni, drammi, solidarietà. Che cosa possono fare le istituzioni della minoranza ebraica in Italia? Come possono essere d’aiuto? Come possono proteggere la realtà di Israele e il suo esempio, il suo modello prezioso di democrazia e di civiltà in Medio Oriente? Qual è, in sostanza, in momenti tanto difficili la vocazione, la missione della più antica comunità della Diaspora?
Interrogativi che in queste giornate accompagnano inevitabilmente tutti noi e che di ora in ora si fanno sempre più pressanti.

“Prima di tutto – afferma Renzo Gattegna, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane – le istituzioni degli ebrei in Italia possono e devono contribuire a fare chiarezza. Chiarezza ed equilibrio, anche nei momenti più duri e più difficili. Equilibrio, anche di fronte ai tentativi di strumentalizzazione e di distorsione che provengono da più parti”.

Ma in concreto, Presidente, le istituzioni degli ebrei italiani devono intervenire sulla crisi di Gaza, o dovrebbero invece restare piuttosto a guardare, neutrali e silenti?

“E’ molto importante – riprende Gattegna – essere chiari. Dobbiamo riaffermare non solo la nostra solidarietà con le ragioni della democrazia israeliana continuamente aggredita da parte di forze che predicano la violenza cieca e ingiustificata e cercano di imporre in tutta la regione mediorientale una aberrante cappa di terrore e di intolleranza. Dobbiamo riaffermare la nostra ferma opposizione nei confronti di organizzazioni terroristiche che attaccano popolazioni civili in Israele e al tempo stesso tengono in ostaggio le popolazioni civili di Gaza, del Libano meridionale e di altri territori, dimostrando di avere in spregio la dignità della vita umana. E per farlo non possiamo limitarci all’esecrazione, alle dichiarazioni di principio”.

E di conseguenza, Presidente, cosa altro possiamo fare?

“Dobbiamo opporci a questo stato delle cose in quanto ebrei e in quanto italiani. Dobbiamo farlo per i valori di un mondo democratico, civile e progredito in cui crediamo, che abbiamo contribuito con fatica e sofferenze a costruire e di cui rappresentiamo, in quanto minoranza radicata da due millenni nella società italiana, il sigillo di garanzia. Ma dobbiamo farlo anche per dimostrare quali sono i valori ebraici che sono in gioco di fronte a una crisi di questa portata e di questa natura”.

A cosa si riferisce?

“Nella tradizione ebraica è connaturata una forte cultura della solidarietà, di capacità di partecipazione alle sofferenze altrui. Non serve scomodare tutte le numerose possibili citazioni bibliche. Per spiegare la nostra vocazione è sufficiente conoscere anche solo a grandi linee la nostra storia. Noi in quanto ebrei non siamo mai stati insensibili alle sofferenze altrui. Resto convinto che il nostro ruolo in questo mondo sia quello di essere i garanti e i difensori dei diritti dei più deboli”.

A chi fa riferimento?

“Alla popolazione civile di Gaza tenuta in ostaggio da terroristi senza scrupoli. Quando le necessarie, inevitabili azioni di una democrazia attaccata che reagisce, di uno Stato che interviene come è suo dovere per difendere i cittadini di cui porta la responsabilità e le sue popolazioni inermi minacciate, quando queste azioni rischiano inevitabilmente di colpire anche altri civili, avviene qualcosa di inevitabile, ma non per questo di meno doloroso. Abbiamo il dovere di dirlo e di trarne le conseguenze”.

Tutto qui?

“No. C’è dell’altro, ben altro. Noi ebrei italiani siamo un elemento piccolo, ma importante della società italiana nell’ambito della quale viviamo. Il mondo politico, le realtà sociali, i mezzi di comunicazione ci tengono gli occhi puntati addosso. Alcuni lo fanno esprimendo una sincera attenzione, altri forse perché sperano di cogliere nelle contraddizioni e nelle inevitabili debolezze di una minoranza che conta appena poche decine di migliaia di componenti qualche elemento che possa giustificare l’odio nei confronti di Israele. Il nostro ruolo è quindi un ruolo di mediatori. Forse non tutti capiscono. Ma noi abbiamo il dovere di capire e di spiegare. Abbiamo il dovere di continuare a fare da ponte e da garanti”.

E in concreto?

Prendiamo a esempio l’iniziativa degli scorsi giorni. Il ministro degli Esteri Franco Frattini ha lanciato un appello umanitario per venire in aiuto delle popolazioni civili colpite in Medio Oriente. Mi sento di dire che si è trattato di un appello trasparente e utile, che fa onore al nostro Paese e che le istituzioni degli ebrei in Italia non possono ignorare. Contemporaneamente un benefattore che comprensibilmente ha domandato di mantenere l’anonimato ha preso contatto con la Comunità Ebraica di Roma e con l’Ucei mettendo a disposizione medicinali per un controvalore importante. Mi è sembrato molto positivo connettere queste diverse potenzialità, provenienti dal mondo diplomatico, politico, imprenditoriale e offrire le migliori garanzie perché questa operazione andasse a buon fine.

Quali garanzie?

Prima di tutto la garanzia di totale sintonia e correttezza nei confronti della democrazia di Israele costretta a difendersi. Se aiuto umanitario da parte dell’Italia deve essere, allora deve certo provenire nella regione sulla base di assicurazioni molto chiare. Il Governo italiano deve fare da garante. Le istituzioni degli ebrei italiani devono fare da garanti. Lo Stato di Israele, impegnato in un’azione di difesa tanto delicata, deve essere pienamente consapevole e concorde. Abbiamo creato sintonia e agito in piena sintonia con tutte queste realtà così diverse. E abbiamo riaffermato i valori che ci stanno a cuore.

Ma qualcuno ha dimostrato di non aver gradito.

Credo che qualcuno abbia dimostrato di non aver compreso. O forse non è stato correttamente informato di come stavano le cose. Ma non importa. Quando si lavora onestamente, la verità presto o tardi viene sempre a galla.

Alcuni israeliani di origine italiana hanno contestato il fatto che si spendano risorse per creare una sensazione di equidistanza, distribuendo aiuti sui due fronti, quello degli israeliani e quello dei palestinesi.

Non esistono due fronti, ma un solo fronte, quello delle popolazioni civili coinvolte dalle azioni terroristiche di chi non vuole che il progresso e la democrazia si facciano strada in Medio Oriente. Il compito delle realtà progredite è quello di proteggere e aiutare queste popolazioni. Esattamente la stessa preoccupazione con cui si muove l’esercito israeliano. Nelle scorse ore, infatti, verso Gaza sono passati centinaia di convogli di aiuti. Il compito degli ebrei italiani è quello di abbattere l’intolleranza, l’odio e l’antisemitismo attraverso la pratica degli ideali di coesistenza e di progresso civile.

Allora perché queste incomprensioni?

Sono giorni difficili. Capisco che alcuni, soprattutto coloro che vivono quotidianamente in prima persona e sulla propria pelle la minaccia del terrorismo islamico, abbiano i nervi a fior di pelle. Capisco meno chi dall’Italia non vuol capire o fa finta di non capire, forse nella speranza di trascinare le realtà ebraiche italiane in una spirale di polemiche che non hanno senso e non possono avere costrutto. Il nostro gesto ha un significato ben chiaro, chi ha voluto intenderlo lo ha inteso. E credo che molti, fra la gente comune come fra i mezzi di informazione, lo abbiano compreso per quello che voleva essere. Tutto il resto sono chiacchiere inutili e in una situazione tanto delicata anche fuori luogo.

Con questa azione, Presidente, gli ebrei italiani hanno quindi da insegnare anche qualcosa a una società israeliana esasperata e sulla difensiva?

Non lo credo. Una volta di più non possiamo che imparare dalla compostezza della società israeliana. Dalla solidarietà che dimostra nei momenti di crisi in tutte le sue articolazioni, dalla destra alla sinistra. Dalla sobrietà del suo mondo politico, che alla vigilia di una consultazione elettorale delicatissima mette da un canto i mille motivi di divisione fra i partiti. Dalla professionalità di un sistema di informazione che è fra i più liberi e sviluppati al mondo. Dalla sua forte capacità di testimoniare i valori ebraici di rispetto della vita umana, preoccupandosi della salute e dell’incolumità non solo dei propri cittadini, ma di tutte le parti coinvolte nel conflitto. Israele è una realtà dove ragazzi poco più che maggiorenni rischiano la vita di persona per evitare al massimo il pericolo che qualche innocente venga coinvolto nei combattimenti. Esattamente il contrario del comportamento di chi cerca di farsi scudo delle popolazioni civili che tiene in ostaggio. Israele ha aperto le porte dei propri ospedali alla gente di Gaza. Ha aperto i confini per far passare quanti più aiuti era possibile. Ha abbassato le difese assumendosi gravi rischi, strategici e politici, per diminuire quanto più possibile perdite e sofferenze. E chi porta le responsabilità di governo a Gerusalemme lo ha più volte ribadito che il nemico non è certo la popolazione civile di Gaza. Noi non abbiamo certo inventato nulla. Cerchiamo solo, fra mille difficoltà, di fare quel poco che è in nostro potere e di dimostrarci all’altezza della situazione.

E il problema di come si spendono le risorse?

Ripeto che si è trattato del gesto generoso di un donatore, i magri bilanci degli enti ebraici italiani non sono stati intaccati in alcun modo. Noi abbiamo speso ben altre risorse: la capacità di fare da tramite e di creare sintonie fra realtà diverse. A tutto vantaggio di chi crede nella pace e di chi pretende sicurezza in Medio Oriente.

Torniamo agli italkim, agli ebrei di origine italiana in Israele. Alcuni segnali di malessere hanno dimostrato che una parte di loro non si sente compresa.

Questo lo posso capire. La situazione non è solo tesa, ma anche delicatissima e difficilissima. Voglio ribadire quanto siamo vicini a questi nostri fratelli e voglio ripetere che una delle mie maggiori ambizioni è quella di comprendere le esigenze di questa realtà di ebrei italiani che ha onorato la minoranza ebraica italiana. Si tratta di una realtà importante nei valori, ma anche quantitativamente in relazione ai nostri piccoli numeri. Di una delle più grandi comunità di lingua italiana in assoluto. Di una delle comunità più significative e più vitali nell’ambito della società israeliana che le istituzioni degli ebrei italiani devono attrezzarsi a comprendere e a valorizzare sempre meglio. Nei prossimi mesi spero di poter dimostrare con iniziative tangibili che gli ebrei italiani insediati in Israele costituiscono la migliore risorsa per realizzare il compito comune per questo appuntamento inevitabile di gettare ponti e creare nuove intese che portino pace, sicurezza e prosperità fra tutti i popoli del Mediterraneo.
 
 
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La guerra è  entrata nel suo momento più duro e decisivo, con l’assalto di Tzahal alle roccheforti del terrorismo (si vedano, fra gli altri, i resoconti di Davide Frattini sul Corriere, di Fabio Scuto su Repubblica, di Giorgio Raccah sul Mattino) . E molti in Europa, anche quelli che all’inizio riconoscevano il carattere terrorista di Hamas e le giustificazioni dell’azione israeliana,  parlano ora di interromperla, di concludere al più presto una  tregua. Alle tante voci esterne, come quella del presidente francese Sarkozy, (ma si legga anche Gideon Rachman sull’influente Financial Times e Fassino su Repubblica, che pure si rifugia nell’utopia di un dovuto “riconoscimento di Israele da parte di Hamas” come premessa alla pace, e perfino Emma Bonino su Il Giorno – Nazione – Carlino) si sono aggiunte anche quella di Tullia Zevi  (intervista sul Corriere) A.B.Yehoshuah (La Stampa) e una lobby pacifista ebraica americane (come riferisce Mazzonis sul Liberazione).
Ma basta leggere le reazioni a un intervento di D’Alema a Matrix (registrate per esempio da Giovanna Vitale su Repubblica; per l’opinione del dirigente del Partito Democratico si veda la sua intervista sull’Unità) per capire che la pressione verso il riconoscimengto di Hamas aumenta in Italia, come in Europa e nel mondo.  Dev’essere ben chiaro che è un errore. Se Israele non riesce a spiantare, o almeno a indebolire fortemente Hamas e a farlo vedere chiaramente, la vittoria sul campo si trasformerà in una sconfitta politica. Lo spiegano bene Franco Venturini sul Corriere e Carlo Panella sul Foglio. Che una vittoria israeliana sarebbe un grande vantaggio per Obama e uno stop all’Iran lo afferma anche William Kristol sull’Herald Tribune; sullo stesso giornale il libanese Rami Kauri sostiene che la semplice sopravvivenza e la capacità di tirare qualche razzo su Israele sarebbe una vittoria per Hamas. Nello stesso senso troviamo su Repubblica un’intervista allo storico Benny Morris. Da leggere anche l’editoriale di Vittorio Feltri su Liberohttp://80.241.231.25/ucei/MvieW.aspx?ID=2009010611506962.
Per questa ragione sono opportune le precisazioni del presidente dell’Ucei Renzo Gattegna in un’intervista al Corriere e dell’ambasciatore Meir in un’intervista a E-polis. Particolarmente lucido e chiaro l’intervento di Sergio Della Pergola sul Giornale. Sono voci che corrispondono ai sentimenti di gran lunga maggioritari delle comunità ebraiche. Per un’inchiesta su questi sentimenti, si vedano le voci raccolte da Maria Lombardi sul Messaggero.
Su come vadano i combattimenti non vi sono molti dubbi. Sul terreno Tzahal sta vincendo: anche se le operazioni sono difficili e sanguinose, le minacce apocalittiche di Hamas risultano infondata. Troviamo una buona analisi tattica sul Foglio, oltre alla solita interessante nota di Guido Olimpio sul Corriere. Edward Luttwak ipotizza che “stanca degli islamici, la popolazione di Gaza indichi agli israeliani dove colpire (Il Giorno – Nazione – Carlino). Il generale Arpino, già capo maggiore della Difesa, sul Tempo, ritiene che la strategia israeliana possa avere successo, ma abbia bisogno ancora di qualche settimana.
Quella che sicuramente è fallita è la diplomazia europea, come sostengono per esempio Singer su Liberal, Zatterin su La Stampa e Luca Sebastiani sul Riformista. Nello stesso senso, ma con una dimensione più storica che cronachistica bisogna leggere l’intervento di Furio Colombo sull’Unità.  Le ragioni del fallimento le troviamo dichiarate dal ministro degli esteri Frattini in un’intervista su Libero: in realtà non vi sono vere proposte concrete europee per la soluzione della crisi, solo una spinta a evitare la violenza della guerra. Frattini capisce bene che questo atteggiamento buonista non può bastare.
Ma c’è anche ‘assenteismo puro e semplice, forse segno della capacità di comprendere che ora non c’è molto da fare per le diplomazie: molti giornali (per esempio La Stampa) riportano una malignità su Tony Blair da parte del suo successore Brown: non si è affatto sentito finora, pur essendo l’inviato del Quartetto in Medio Oriente, “perché era in vacanza”, a quanto pare ospite di Armani. Ma, sostengono coloro che vogliono una tregua subito, anche “il silenzio di Obama delude” soprattutto “gli arabi” (Il Mattino, Ennio di Nolfo sul Messaggero).
Interessante infine, nell’ambito diplomatico, l’analisi di Da Rold sul Sole 24 ore: l’Iran usa la crisi e non cerca di risolverla (per esempio non ha fatto intervenire finora la sua longa manus di Hezbollah) per nascondere la sua crisi economica.
Nel frattempo le analisi sulla possibile conclusione della guerra continuano. Sul Corriere  Ferrari parla delle difficoltà di Abu Mazen (che promette di non entrare a Gaza sui carri armati israeliani, come riporta La Repubblica).  Battistini, ancora sul Corriere riferisce del dibattito sulla stampa israeliana, al solito molto acceso. Che il panorama dell’opinione pubblica israeliana e palestinese sia più complesso di come normalmente si crede, lo si ricava da un’interessante inchiesta di Luciano Gulli da Gerusalemme: vi sono palestinesi che hanno il coraggio di pronunciarsi Hamas e israeliani che mettono al centro della loro analisi l’ira e la frustrazione per dover riconquistare sanguinosamente quel che si era ceduto senza contropartita  tre anni fa. Daniele Ranieri sul Foglio
ipotizza “un accordo a quattro” (Israele, AP, Egitto, Stati Uniti) come obiettivo israeliano. Molto articolata e nello stesso senso l’analisi del generale Carlo Jean sul Messaggero, dedicata in particolare alla posizione dei paesi arabi moderati, che attenderebbero l’eliminazione di Hamas da parte di Israele per proporre una soluzione di compromesso.
Continua la polemica sulle manifestazioni estremiste di sabato, con preghiere islamiche sul sagrato delle cattedrali di Milano e di Bologna. I rappresentanti della comunità islamica ora pretendono che sia stato “un caso” (Pfaender sul Giornale). Il Foglio riporta l’opinione di Massimo Cacciari, Angelo Panebianco e altri intellettuali di varie estrazioni. Un’altra rassegna di interventi si trova sul Secolo d’Italia. Sul Corriere interviene Alberto Asor Rosa, vecchio intellettuale comunista, che certo non è a favore di Israele, per condannare l’”aberrante” mescolanza di religione e politica. La cosa invece non scandalizza affatto il sociologo Alessandro Dal Lago, in un articolo molto militante sul Manifesto: la religione sarebbe “l’ultima speranza” per Gaza. Gian Guido Vecchi sul Corriere registra le reazioni molto modeste del Vaticano (il cardinal Martino si dice “infastidito” dalle bandiere bruciate, ma poi rincara la dose sulla “dignità umana calpestata da decenni a Gaza”. Una posizione così morbida da lasciare sconcertato Antonio Socci (Il Giornale), che chiede almeno un intervento del cardinale Tettamanzi, arcivescovo di Milano. Interessante un’analisi di Baget Bozzo sul Giornale che vede la piazza del Duomo “invasa” dalla preghiera islamica come una “metafora” dell’identità musulmana in occidente.
Fra le altre notizie, da leggere il resoconto di un viaggio ad Auschwitz di Vladimir Luxuria su Liberazione:con qualche ingenuità ma sincero dolore. Gli ebrei morti, soprattutto sei in mezzo a Rom e omosessuali, sono buoni anche all’estrema sinistra. Sullo stesso giornale e nello stesso senso buonista per il passato, antisraleiano per il presente, si può leggere una recensione di Guido Caldiron
dell’”Archivio antiebraico” di Sullam.
L’Avvenire continua la campagna per Pio XII, dando notizia di un carteggio fra André Chouraqui, Jacques Maritain e Ellul Claudel, contenuto in un libro di prossima uscita (Il destino di Isarele, Edizioni Paoline). Ma più che alle domande di Chouraqui, ebreo algerino traduttore delle scritture e molto impegnato nel dialogo inter-religioso (“perché ha taciuto papa Pacelli), il giornale dei vescovi dà rilievo alla difesa dell’intellettuale cattolico. Interessante anche la lettera voluta dal suo predecessore, Papa Ratti, ai direttori delle scuole superiori cattoliche, in cui si proclamano come “assurde” le tesi principali del razzismo e della statolatria nazifascista. L’articolo, sempre su Avvenire è di Gianfranco Turrini

Ugo Volli

 
 
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Gaza: i numeri del conflitto                                                                  
Tel Aviv, 6 genn -
Gaza - 130 è il numero dei combattenti di Hamas uccisi da quando è iniziata l'offensiva di Israele nella Striscia, lo ha riferito un portavoce dell'esercito israeliano. Fonti palestinesi sono ferme invece alla cifra di 560 palestinesi uccisi e più di 2000 feriti, con riferimento però a tutto il periodo dell'offensiva, iniziata con i combattimenti aerei il 27 dicembre.

I dirigenti di Hamas si nascondono in Ospedale
Tel Aviv, 6 genn -
Per sfuggire al fuoco di Israele alcuni dirigenti di Hamas si sarebbero rifugiati nell'ospedale di Gaza e in edifici vicini alle istituzioni internazionali fra cui la Croce Rossa e organizzazioni Onu.
La notizia è stata fornita dal quotidiano israeliano Haaretz. Fonti palestinesi hanno riferito al giornale di aver visto nei giorni scorsi dirigenti di Hamas nel dipartimento di ostetricia dell'ospedale Shifa di Gaza.
Haaretz ha riferito che proprio al Shifa sono state improvvisate conferenze stampa nella persuasione che l'ospedale non sarebbe stato colpito da Israele.
Lo stesso giornale ha sottolineato che i miliziani di Hamas hanno intenzionalmente attaccato le forze israeliane dall'interno di rioni fittamente abitati.


Ferrando (Pcl):”scendiamo in piazza con i palestinesi”
Roma, 5 genn -
"E' necessario e urgente promuovere una grande manifestazione nazionale a Roma capace di coinvolgere unitariamente, a fianco dei palestinesi, tutte le forze della sinistra e dell'associazionismo" - lo ha detto Marco Ferrando del Pcl, spiegando che tale manifestazione avrebbe il fine di rivendicare il diritto di protestare sotto Palazzo Chigi e sotto le ambasciate filosioniste, come in tutti gli altri Paesi, e che respinga “ogni isteria e intimidazione da parte del governo e del Pdl” - infatti, ha aggiunto - "Sotto il fuoco terrificante della macchina da guerra di Israele, i palestinesi non hanno alleati presso i vertici dell'Onu, nell'alta diplomazia europea o in Barack Obama: possono contare solamente sulla propria eroica resistenza, su una possibile sollevazione araba in tutto il Medio Oriente e sullo sviluppo della mobilitazione in Occidente".
Ferrando, in merito alle bandiere di Israele, bruciate nelle piazze, ha voluto spiegare che tali azioni non significano disprezzo del popolo ebraico, ma disprezzo e rifiuto del regime sionista.
“Un disprezzo - ha tenuto a precisare – verso un regime che non solo nega le migliori tradizioni dell'ebraismo ma che si fa scudo del popolo ebraico per giustificare l'oppressione dei palestinesi: e che proprio per questo, oltretutto, espone cinicamente il popolo ebraico ai rischi di ritorno dell'antisemitismo nel mondo"
 
 
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