se non visualizzi correttamente questo messaggio, fai click qui |
|
|
|
|
L'Unione informa |
|
|
|
10 gennaio 2010 - 2 Shevat 5770 |
|
|
|
|
|
Roma, 17 gennaio 2010 / 2 Shevat 5770 Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma
Ecco il testo degli interventi
Riccardo Pacifici, Presidente della Comunità Ebraica di Roma
Ho
l’onore di porgere a Lei, Papa Benedetto XVI, Vescovo di Roma, i saluti
della Comunità ebraica di Roma per la gradita visita che ha voluto
riservarci in questo giorno dedicato al dialogo ebraico/cristiano e per
festeggiare insieme alla nostra Comunità il Moed di Piombo. Saluto anche tutte le Autorità religiose, civili e militari, il pubblico qui presente e tutti coloro che ci seguono.
Beruchim Abbaim. Benvenuti.
Quello
odierno è un evento che lascerà un segno profondo nelle relazioni fra
il mondo ebraico e quello cristiano, non solo sul piano religioso ma
soprattutto per la ricaduta che auspichiamo possa avere tra le persone
nella società civile. La nostra è la più antica Comunità
della Diaspora occidentale. Vivace, vitale, orgogliosa della propria
storia, sempre più osservante delle proprie leggi e delle tradizioni.
Con scuole che negli ultimi 10 anni sono caratterizzate da una crescita
costante del numero degli iscritti. Una Comunità che nel corso dei
secoli ma, soprattutto dopo il 1870, ha potuto dare il proprio
contributo alla crescita culturale, economica e artistica non solo
della nostra Città, ma dell’intero nostro Paese; che ha combattuto per
l’unità d’Italia e ha difeso la Patria nel primo conflitto mondiale.
Una Comunità che ha contribuito alla Resistenza e ha dato uomini
politici e premi Nobel. Raccogliamo l’eredità di uomini politici come
Ernesto Nathan, sindaco di Roma nei primi del '900, difensori della
laicità delle Istituzioni, consapevoli nello stesso tempo di come il
senso di laicità non debba mai essere in contrapposizione con
il contributo che le religioni monoteiste possono dare ai più
importanti dibattiti nella società in cui viviamo. La nostra
vitalità è testimoniata dalle 15 Sinagoghe oggi presenti nella
Capitale, più che raddoppiate rispetto a quelle presenti nel 1986,
l’ultima è la Shirat HaYam, che ha visto la luce da sei mesi a Ostia. Prima
di tutto, sentiamo il dovere di riconoscere che il nostro Rabbino
Emerito Professor Elio Toaff - che saluto con devozione - e Giovanni
Paolo II, al quale va un commosso ricordo, ebbero la capacità di
comprendere quanto la collaborazione tra uomini delle nostre diverse
religioni potessero, da Roma, realizzare aspirazioni e dare vita a
“sogni”. Rav Toaff, nel suo storico intervento di saluto a
Giovanni Paolo II nel 1986, auspicava un impegno comune contro
l'Apartheid in Sud Africa e la libertà religiosa nell'Unione Sovietica;
le due vicende hanno avuto felici epiloghi. Nella stessa occasione
il mio predecessore professor Giacomo Saban, qui fra noi, auspicò
l’apertura di relazioni diplomatiche fra lo Stato d'Israele e lo Stato
del Vaticano. Questo “sogno” si è avverato nel 1993. La presenza del
vice primo Ministro d'Israele Silvan Shalom e dei nostri amici, gli
ambasciatori Mordechai Levy e Gideon Meir, testimonia come tali
relazioni, siano per noi ebrei, tanto nella Diaspora che in Israele,
sentite e condivise. Per noi ebrei lo Stato d’Israele è il frutto
di una storia comune e di un legame indissolubile che è parte fondante
della nostra cultura e tradizione. Un diritto, che ogni uomo che si
riconosce nelle sacre scritture Bibliche sa essere stato assegnato al
Popolo d’Israele. Il nostro pensiero e le nostre preghiere vanno
al giovane soldato Gilad Shalit, cittadino onorario di Roma, che da
1302 giorni è prigioniero e del quale attendiamo la liberazione. Sento
il dovere di sottolineare con gratitudine che Lei è il primo Vescovo di
Roma che rende omaggio alla lapide del piccolo Stefano Gay Tachè z.l.,
prendendo atto di come questa Sinagoga di Roma sia stata teatro di un
brutale atto terroristico palestinese. E’ giunto il tempo di lavorare a nuove aspirazioni. Desideriamo
esprimerLe tutta la nostra solidarietà per gli inauditi atti di
violenza di cui sempre più spesso le comunità cristiane sono oggetto
in alcuni paesi dell’Asia e dell’Africa ed abbiamo la sensazione
che il mondo occidentale non esprima sufficientemente il proprio
sdegno. L’azione sui Governi dei Paesi in cui è vietato costruire una
Chiesa o una Sinagoga dovrebbe essere più energica. Vigilare affinché i
diritti fondamentali delle donne e la libertà religiosa vengano
tutelati in democrazia e libertà. Più di un milione di ebrei
sono dovuti fuggire o sono stati espulsi dai Paesi arabi, alcuni dei
quali oggi non tollerano i cristiani. Nel 1967 circa cinquemila ebrei
sono dovuti scappare dalla Libia e si sono rifugiati in buona parte a
Roma. In tale occasione la nostra Comunità ha dimostrato la capacità
d’integrazione e accoglienza di una nuova presenza, dono di vitalità e
dinamismo. Desidero, inoltre, manifestarLe il nostro vivo
apprezzamento per la posizione coraggiosa che Lei ha assunto sul tema
dell’immigrazione. Noi, che fummo liberati dalla schiavitù in terra
d’Egitto, come ricorda il primo Comandamento, siamo al Suo
fianco perché tale tema venga affrontato con “giustizia”. Possiamo
e dobbiamo contrastare paura e sospetto, egoismo ed indifferenza;
Rafforzare la cultura dell'accoglienza e della solidarietà,
dell'altruismo e della sete di conoscenza dell'altro. Dobbiamo
contrastare quelle ideologie xenofobe e razziste che alimentano il
pregiudizio, far comprendere che i nuovi immigrati vengono a risiedere
nel nostro Continente, per vivere in pace e per raggiungere un
benessere che ha forti ricadute positive per la collettività tutta.
Ricordandoci che ogni essere umano, secondo le nostre comuni
tradizioni, è fatto ad immagine e somiglianza del Creatore. Siamo
tutti preoccupati per il fondamentalismo islamico. Uomini e donne
animati dall'odio e guidati e finanziati da organizzazioni
terroristiche cercano il nostro annientamento non solo culturale ma
anche fisico. Questo fanatismo religioso è sostenuto anche da Stati
sovrani. Tra questi Stati ci sono coloro che sviluppano la
tecnologia nucleare a scopi militari programmando la distruzione dello
Stato d'Israele e il conseguente sterminio degli ebrei, con l'intento
ultimo di ricattare il mondo libero. Per questo, dobbiamo
solidarizzare con le forze che nell’Islam interpretano il Corano come
fonte di solidarietà e fraternità umana, nel rispetto della sacralità
della vita. In questa Sinagoga, sono presenti oggi alcuni di questi
leader musulmani e con calore e affetto sento di dar loro il benvenuto. Il
peso della Storia si fa si sentire anche sull’evento di oggi con ferite
ancora aperte che non possiamo ignorare. Per questo guardiamo con
rispetto anche coloro che hanno deciso di non essere fra noi. Lei
ha reso omaggio a Largo 16 Ottobre, teatro del rastrellamento infame
del '43; colgo per questo l’occasione di salutare con commozione e
orgoglio i superstiti della Shoàh qui presenti. Zachor et asher asà lechà Amalek - Ricorda ciò ti che fece Amalek è scritto nel Deuteronomio capitolo 25 verso 17. Noi
figli della Shoàh della seconda e terza generazione, che siamo
cresciuti nella libertà, sentiamo ancor di più la responsabilità della
Memoria. Chi le parla è figlio di Emanuele Pacifici e nipote del
Rabbino Capo di Genova Riccardo Pacifici z.l., morto ad Auschwitz
insieme alla moglie Wanda. Se sono qui a parlare da questo luogo sacro,
è perché mio padre e mio zio Raffaele z.l. trovarono rifugio nel
Convento delle Suore di Santa Marta a Firenze. Il debito
di riconoscenza nei confronti di quell'Istituto religioso è immenso e
il rapporto continua con le suore della nostra generazione. Lo Stato
d'Israele ha conferito al Convento la Medaglia di Giusti fra le Nazioni. Questo
non fu un caso isolato né in Italia né in altre parti d'Europa.
Numerosi religiosi si adoperarono, a rischio della loro vita, per
salvare dalla morte certa migliaia di ebrei, senza chiedere nulla in
cambio. Per questo, il silenzio di Pio XII di fronte alla
Shoàh, duole ancora come un atto mancato. Forse non avrebbe
fermato i treni della morte, ma avrebbe trasmesso, un segnale,
una parola di estremo conforto, di solidarietà umana, per quei nostri
fratelli trasportati verso i camini di Auschwitz. In attesa di un
giudizio condiviso, auspichiamo, con il massimo rispetto, che gli
storici abbiano accesso agli archivi del Vaticano che riguardano quel
periodo e tutte le vicende successive al crollo della Germania
nazista. Numerosi sono stati i gesti e gli atti di riconciliazione
compiuti dal pontificato di Giovanni XXIII a quello di Giovanni Paolo
II. Dalla Nostra Aetate alla visita che Lei ha compiuto in
Israele e ad Yad Vashem, questi atti testimoniano che il dialogo tra
ebrei e cattolici, seppur talvolta difficoltoso, può e deve
continuare. Sarebbe bello che da questa Sua visita possa avviarsi
un ulteriore impulso alle attività di conoscenza e divulgazione
dell'immenso patrimonio librario e documentario relativo alla
produzione ebraica che è custodito nelle biblioteche e negli archivi
vaticani. Apriamo i nostri cuori e da questo storico incontro
usciamo con un messaggio di solidarietà. Lo dobbiamo a noi stessi. Lo
dobbiamo ai nostri figli. Per lasciare loro una eredità importante
ed aiutarli al confronto fra individuo e individuo. Questo è il
nostro modo di intendere il dialogo fra le religioni. Affinché si
possano avere figli, da una parte e dell’altra, sicuri e consapevoli
delle proprie tradizioni. Aperti al confronto, nella diversità, quale
comune ricchezza per una società che si vuole definire libera e giusta.
Renzo Gattegna, Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Nei
confronti del Papa Benedetto XVI sono portatore, in rappresentanza
delle ventuno Comunità Ebraiche Italiane, del più sincero benvenuto e
dei più fervidi auguri per la Sua Persona e per lo svolgimento del Suo
Alto Magistero. La Sua presenza oggi in questo Tempio genera nel
nostro animo forti emozioni e stimola la nostra mente a considerare e a
valutare quanta strada abbiamo percorso negli ultimi decenni. Questa
Sua visita alla Sinagoga di Roma si collega strettamente a quella
compiuta dal Suo predecessore, Papa Giovanni Paolo II, il 13 Aprile del
1986. Questi due importanti eventi costituiscono attuazione di
quel nuovo corso, nei rapporti tra ebrei e cristiani, che ebbe inizio
50 anni fa e di cui fu promotore Papa Giovanni XXIII, il quale per
primo comprese che un costruttivo dialogo e un incontro in uno spirito
di riconciliazione, sarebbe potuto avvenire solo su presupposti di pari
dignità e reciproco rispetto. Questi principi sono stati
solennemente affermati nella Dichiarazione “Nostra Aetate” che,
concepita e voluta da Papa Giovanni XXIII, fu promulgata il 28 Ottobre
del 1965 dal Concilio Vaticano II. Da quel momento iniziò a
svilupparsi un dialogo tra ebrei e cristiani finalizzato sia ad
individuare obbiettivi comuni, per il futuro, sia ad eliminare
incomprensioni e divergenze a causa delle quali, nei secoli passati,
gli ebrei pagarono un prezzo altissimo, in termini di vite umane e di
sofferenze, per la loro ferma determinazione a rimanere fedeli ai
propri principi e ai propri valori. Rimane indelebilmente
scolpito nella nostra memoria il nobile discorso da Lei pronunciato nel
febbraio del 2009 allorché, annunciando la decisione di compiere il Suo
viaggio in Israele, volle riprendere le parole che il Suo
predecessore, Papa Wojtyla, pronunciò, nel Marzo del 2000, davanti al
Muro Occidentale di Gerusalemme chiedendo perdono al Signore per tutte
le ingiustizie che il popolo ebraico aveva dovuto soffrire e
impegnandosi per “un’autentica fratellanza con il popolo dell’Alleanza”. Mi
sono permesso di ricordare queste Sue parole perché oggi qui, davanti a
noi, sono presenti alcune persone che, nonostante l’età avanzata, hanno
voluto partecipare a questo incontro; a loro va il nostro rispetto, la
nostra ammirazione e il nostro affetto; essi nel 1943 e 1944 furono
deportati nei campi di sterminio nazisti e furono fra i pochissimi che
riuscirono a sopravvivere; ho ritenuto che soprattutto loro, che hanno
conosciuto l’inferno dei lager, siano i veri destinatari di quelle
parole che Lei ha pronunciato e che rimangono oggetto delle nostre
riflessioni. La nostra generazione, che è sopravvissuta alla
Shoah, e che, poi, ha avuto la fortuna di vedere realizzata la
millenaria aspirazione alla ricostruzione dello Stato d’Israele, si
sente pronta ad affrontare le prossime sfide, di cui la principale sarà
quella di contribuire ad instaurare nel mondo, per tutti, il rispetto
dei diritti umani fondamentali, cosicchè le diversità non siano, mai
più, causa di conflitti ideologici o religiosi, bensì di reciproco
arricchimento culturale e morale. La nuova stagione è solo agli
inizi e c’è un lungo cammino da percorrere, ma tutto sarà più facile se
sapremo riempire di contenuto e dare il giusto significato a quel
termine stupendo “fratelli” con il quale i nostri predecessori si
salutarono ventiquattro anni fa, impegnandosi a costruire un prezioso
rapporto di amicizia. Saluto con grande affetto i protagonisti di
quel primo incontro, il Rabbino Emerito Professor Elio Toaff e l’allora
Presidente della Comunità di Roma, il Professor Giacomo Saban, oggi qui
presente, ed esprimo a loro tutta la nostra gratitudine per la saggezza
e la lungimiranza con le quali ci hanno guidato; alla memoria di Papa
Giovanni Paolo II rendo un commosso omaggio. A Lei rinnovo il
ringraziamento per aver accettato il nostro invito; la Sua presenza è
un grande onore e costituisce un rinnovato impegno a proseguire nel
cammino intrapreso. Un cammino che deve essere proseguito insieme fra
ebrei, cristiani e musulmani, come siamo qui oggi, per riscoprire la
comune eredità, dare testimonianza del Dio Unico e, al di là delle
differenze che rimarranno, inaugurare un’era di pace.
Riccardo Di Segni, Rabbino capo della Comunità Ebraica di Roma
Un
saluto grato di benvenuto al Papa, Benedetto XVI, Vescovo di Roma, per
il gesto che compie oggi visitando il luogo più importante di preghiera
della nostra Comunità. Quando un nuovo Papa veniva eletto, il
pontificato iniziava con una solenne processione per le vie di Roma. A
questa processione dovevano partecipare anche gli ebrei della città,
addobbando un tratto del lungo percorso. Tra gli addobbi c'erano anche
dei grandi pannelli elogiativi. Si sapeva tutto del loro contenuto, ma
nessuno li aveva mai visti in tempi recenti, fino a poco tempo fa,
quando una scoperta casuale nell'archivio della nostra Comunità
ha portato alla luce una collezione di quattordici di questi pannelli
di cartone risalenti al diciottesimo secolo. Li abbiamo restaurati e
abbiamo organizzato una mostra speciale nel nostro museo; il Papa oggi
in visita da noi sarà il primo a vedere questi pannelli; sono un pezzo
della nostra storia di ebrei romani da duemila anni in rapporto con la
Chiesa, così come lo è l'evento storico che viviamo in questo momento.
Ma quanta differenza di significato. I pannelli erano il tributo dovuto
a forza da sudditi appena tollerati, chiusi in un recinto e limitati in
tutte le loro libertà. Prima dei pannelli del diciottesimo secolo c'era
ancora peggio, l'esposizione del libro della Torà al Papa che si
riservava anche di dileggiarlo. I tempi evidentemente sono cambiati e
ringraziamo il Signore Benedetto che ci ha portato ad un'epoca di
libertà; e dopo la libertà conquistata nel 1870, possiamo, dai
tempi del Concilio Vaticano, rapportarci con la Chiesa Cattolica e il
suo Papa in termini di pari dignità e rispetto reciproco. Sono le
aperture del Concilio che rendono possibile questo rapporto; se
venissero messe in discussione non ci sarebbe più possibilità di
dialogo. Il tratto di Roma che gli ebrei dovevano addobbare era
quello vicino all'Arco di Tito, scelto non a caso per ricordare agli
ebrei l'umiliazione della perdita dell'indipendenza politica. Ma per
noi quel simbolo non è mai stato soltanto negativo; gli ebrei erano sì
umiliati e senza indipendenza, ma continuavano a vivere, mentre gli
imperi che li avevano assoggettati e sconfitti non esistevano più. A
questo miracolo di sopravvivenza si è aggiunto il miracolo
dell'indipendenza riconquistata dello Stato d'Israele. Sono passati 24
anni dalla storica e indimenticabile visita di papa Giovanni Paolo II
in questa Sinagoga. Allora fu forte la richiesta rivolta al Papa dai
nostri dirigenti di riconoscere lo Stato d'Israele, cosa che
effettivamente avvenne pochi anni dopo. Fu un ulteriore segno di tempi
cambiati e più maturi. Lo Stato di Israele è un'entità politica,
garantita dal diritto delle genti. Ma nella nostra visione religiosa
non possiamo non vedere in tutto questo anche un disegno
provvidenziale. Nel linguaggio comune si usano spesso espressioni come
"terra santa" e “terra promessa”, ma si rischia di perderne il senso
originario e reale. La terra è la terra d'Israele, e in ebraico
letteralmente non è la terra che è santa, ma è eretz haQodesh
la terra di Colui che è Santo; e la promessa è quella fatta
ripetutamente dal Signore ai nostri patriarchi, Abramo, Isacco e
Giacobbe di darla ai loro discendenti, i figli di Giacobbe-Israele, che
effettivamente l'hanno avuta per lunghi periodi. Nella coscienza
ebraica questo è un dato fondamentale e irrinunciabile che è importante
ricordare che si basa sulla Bibbia alla quale voi e noi diamo, pur
nelle differenti letture, un significato sacro. E' qui oggi
presente ad accogliere Papa Benedetto una rappresentanza ampia e
significativa della nostra Comunità insieme a rappresentanti di
istituzioni estere. Ma più delle istituzioni forse contano le memorie,
le biografie di ognuno, un documento vivo ed impressionante della
storia ebraica di quest'ultimo secolo. Vorrei citare alcuni nomi e mi
perdonino tutti gli altri. Solo riferendoci ai Rabbini qui presenti,
rav Brudman, rabbino capo di Savion in Israele, ha trascorso tre anni
della sua infanzia passando da un campo nazista all'altro; rav
Schneier, di New York, era bambino nell'inferno di Budapest del 1944;
rav Shearyashuv haKohen, rabbino capo di Haifa ha combattuto nella
guerra di indipendenza di Israele del 1948 ed è stato prigioniero dei
Giordani; rav Arussi rabbino capo di Kiriat Ono discende da una
famiglia emigrata in Israele dallo Yemen. E pensando alla nostra
Comunità abbiamo qui una rappresentanza del sempre più piccolo gruppo
dei sopravvissuti ai campi di sterminio della Germania nazista. Vorrei
sottolineare come la loro storia non è solo storia di sofferenze, ma
storia di resistenza e fedeltà. Qualcuno forse si sarebbe salvato se
avesse abiurato. Ma non l'hanno fatto. Cito la testimonianza, semplice
e toccante, di Leone Sabatello, da poco scomparso: “Al
Collegio militare –il luogo dove erano stati raccolti dopo la razzia
del 16 ottobre- ci chiedevano se qualcuno era di religione cattolica o
se volevamo diventare cattolici. Qualcuno ha detto di sì, ma noi ci
siamo raccolti tutti quanti in famiglia e siamo rimasti quelli che
siamo sempre”. “Siamo rimasti quelli che siamo
sempre” è questa forza, questa tenacia, questo legame che rende grande
e fa crescere la nostra Comunità. Viviamo una stagione di
riscoperta della nostra tradizione, di studio e di pratica della Torà.
Le nostre scuole crescono, crescono i servizi religiosi, le sinagoghe
si moltiplicano nel tessuto urbano. E tutto questo avviene con una
piena integrazione nella città, in spirito di amicizia, di accoglienza,
di solidarietà e di apertura. Nella visita a questa
Sinagoga, papa Giovanni Paolo II descrisse il rapporto tra ebrei e
cristiani come quello tra fratelli. Il racconto del Sefer Bereshit, la
Genesi, dà su questo delle indicazioni preziose. Come spiega rav Sachs,
c'è nel libro, dall'inizio alla fine, un filo conduttore che lega
storie diverse. Il rapporto tra fratelli comincia molto male, Caino
uccide Abele. Un'altra coppia di fratelli, Isacco e Ismaele, vive
separata, vittima di rivalità ereditate, ma si ritrova per un gesto di
pietà alla sepoltura del padre comune Abramo. Una terza coppia di
fratelli, Esaù e Giacobbe, parimenti conflittuale, si incontra per una
breve conciliazione e un abbraccio, ma le strade dei due si separano.
Finalmente la storia di Giuseppe e i suoi fratelli, iniziata
drammaticamente con un tentato omicidio e una vendita in schiavitù si
risolve con una conciliazione finale quando i fratelli di Giuseppe
riconoscono il loro errore e danno prova di volersi sacrificare per
l'altro. Se il nostro è un rapporto tra fratelli c'è da chiedersi
sinceramente a che punto siamo di questo percorso e quanto ci separa
ancora dal recupero di un rapporto autentico di fratellanza e
comprensione; e cosa dobbiamo fare per arrivarci. Cosa
dobbiamo e possiamo fare insieme. Un esempio. Si parla molto in questi
tempi dell'urgenza di proteggere l'ambiente. Su questo punto
abbiamo delle visioni comuni e speciali da trasmettere. Il dovere di
proteggere l'ambiente nasce con il primo uomo; Adamo fu posto nel
giardino dell'Eden con l'obbligo di “lavorarlo e custodirlo” (Gen.
2:15). Bisogna ricordare che nella Bibbia ebraica non compare mai la
parola natura, come cosa indipendente, ma solo il concetto di creato e
creatura. Siamo tutte creature, dalle pietre agli esseri umani. Il
cantico delle creature di Francesco d'Assisi è radicato nella
spiritualità biblica, soprattutto dei Salmi. Possiamo per questo
condividere un progetto di ecologia non idolatrica, senza dimenticare
che alla cima della creazione c'è l'uomo fatto a immagine divina. La
responsabilità va alla protezione di tutto il creato, ma la santità
della vita, la dignità dell'uomo, la sua libertà, la sua esigenza di
giustizia e di etica sono i beni primari da tutelare. Sono gli
imperativi biblici che condividiamo, insieme a quello della
misericordia; vivere la propria religione con onestà e umiltà, come
potente strumento di crescita e promozione umana, senza aggressività,
senza strumentalizzazione politica, senza farne strumento di odio, di
esclusione e di morte. Terribile responsabilità dell'uomo.
Immagini potenti del pensiero dei nostri Maestri sono state spesso
espresse cercando le allusioni nella lingua delle sacre scritture. C'è
una frase dell'Esodo (15:11) che dice "chi è come Te tra i potenti, baelim,
o Signore". Rabbì Ishmael, testimone di orrori storici e lui stesso
martire della repressione di Adriano, leggeva questa frase con una
piccola variante: bailemim
"chi è come Te o Signore, tra i muti", che assisti alle sciagure del
mondo e non parli. Il silenzio di D. o la nostra incapacità di sentire
la Sua voce davanti ai mali del mondo, sono un mistero imperscrutabile.
Ma il silenzio dell'uomo è su un piano diverso, ci interroga, ci sfida
e non sfugge al giudizio. Ebrei, Cristiani e altri fedeli
sono stati perseguitati e continuano ad essere perseguitati nel mondo
per la loro fede. Solo Colui che è il Signore del perdono può perdonare
tutti quelli che ci perseguitano. Malgrado una storia drammatica,
i problemi aperti e le incomprensioni, sono le visioni condivise e gli
obiettivi comuni che devono essere messi in primo piano. L'immagine
di rispetto e di amicizia che emana da questo incontro deve essere un
esempio per tutti coloro che ci osservano. Ma amicizia e fratellanza
non devono essere esclusivi e oppositori nei confronti di altri. In
particolare di tutti coloro che si riconoscono nell'eredità spirituale
di Abramo. Ebrei, Cristiani e Musulmani sono chiamati senza esclusioni
a questa responsabilità di pace. La preghiera che si alza da questa
Sinagoga è quella per la pace universale annunciata da Isaia (66:12)
per Gerusalemme, kenahar shalom ukhnachal shotef kevod goim , “la pace come un fiume e la gloria dei popoli come un torrente in piena”.
Benedetto XVI
“Il Signore ha fatto grandi cose per loro” Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia” (Sal 126)
“Ecco, com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme!” (Sal 133)
All’inizio
dell’incontro nel Tempio Maggiore degli Ebrei di Roma, i Salmi che
abbiamo ascoltato ci suggeriscono l’atteggiamento spirituale più
autentico per vivere questo particolare e lieto momento di grazia: la
lode al Signore, che ha fatto grandi cose per noi, ci ha qui raccolti
con il suo Hèsed, l’amore misericordioso, e il ringraziamento per
averci fatto il dono di ritrovarci assieme a rendere più saldi i legami
che ci uniscono e continuare a percorrere la strada della
riconciliazione e della fraternità. Desidero esprimere innanzitutto
viva gratitudine a Lei, Rabbino Capo, Dottor Riccardo Di Segni, per
l’invito rivoltomi e per le significative parole che mi ha indirizzato.
Ringrazio poi i Presidenti dell’Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane, Avvocato Renzo Gattegna, e della Comunità Ebraica di Roma,
Signor Riccardo Pacifici, per le espressioni cortesi che hanno voluto
rivolgermi. Il mio pensiero va alle Autorità e a tutti i presenti e si
estende, in modo particolare, alla Comunità ebraica romana e a quanti
hanno collaborato per rendere possibile il momento di incontro e di
amicizia, che stiamo vivendo. Venendo tra voi per la prima volta
da cristiano e da Papa, il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II,
quasi ventiquattro anni fa, intese offrire un deciso contributo al
consolidamento dei buoni rapporti tra le nostre comunità, per superare
ogni incomprensione e pregiudizio. Questa mia visita si inserisce nel
cammino tracciato, per confermarlo e rafforzarlo. Con sentimenti di
viva cordialità mi trovo in mezzo a voi per manifestarvi la stima e
l’affetto che il Vescovo e la Chiesa di Roma, come pure l’intera Chiesa
Cattolica, nutrono verso questa Comunità e le Comunità ebraiche sparse
nel mondo.
La dottrina del Concilio Vaticano II ha
rappresentato per i Cattolici un punto fermo a cui riferirsi
costantemente nell’atteggiamento e nei rapporti con il popolo ebraico,
segnando una nuova e significativa tappa. L’evento conciliare ha dato
un decisivo impulso all’impegno di percorrere un cammino irrevocabile
di dialogo, di fraternità e di amicizia, cammino che si è approfondito
e sviluppato in questi quarant’anni con passi e gesti importanti e
significativi, tra i quali desidero menzionare nuovamente la storica
visita in questo luogo del mio Venerabile Predecessore, il 13 aprile
1986, i numerosi incontri che egli ha avuto con Esponenti ebrei, anche
durante i Viaggi Apostolici internazionali, il pellegrinaggio giubilare
in Terra Santa nell’anno 2000, i documenti della Santa Sede che, dopo
la Dichiarazione Nostra Aetate, hanno offerto preziosi orientamenti per
un positivo sviluppo nei rapporti tra Cattolici ed Ebrei. Anche io, in
questi anni di Pontificato, ho voluto mostrare la mia vicinanza e il
mio affetto verso il popolo dell’Alleanza. Conservo ben vivo nel mio
cuore tutti i momenti del pellegrinaggio che ho avuto la gioia di
realizzare in Terra Santa, nel maggio dello scorso anno, come pure i
tanti incontri con Comunità e Organizzazioni ebraiche, in particolare
quelli nelle Sinagoghe a Colonia e a New York. Inoltre, la Chiesa
non ha mancato di deplorare le mancanze di suoi figli e sue figlie,
chiedendo perdono per tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo
le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo (cfr Commissione per
i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, Noi Ricordiamo: una riflessione
sulla Shoah, 16 marzo 1998). Possano queste piaghe essere sanate per
sempre! Torna alla mente l’accorata preghiera al Muro del Tempio in
Gerusalemme del Papa Giovanni Paolo II, il 26 marzo 2000, che risuona
vera e sincera nel profondo del nostro cuore: “Dio dei nostri padri, tu
hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo Nome sia portato
ai popoli: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di
quanti, nel corso della storia, li hanno fatti soffrire, essi che sono
tuoi figli, e domandandotene perdono, vogliamo impegnarci a vivere una
fraternità autentica con il popolo dell’Alleanza”.
Il
passare del tempo ci permette di riconoscere nel ventesimo secolo
un’epoca davvero tragica per l’umanità: guerre sanguinose che hanno
seminato distruzione, morte e dolore come mai era avvenuto prima;
ideologie terribili che hanno avuto alla loro radice l’idolatria
dell’uomo, della razza, dello stato e che hanno portato ancora una
volta il fratello ad uccidere il fratello. Il dramma singolare e
sconvolgente della Shoah rappresenta, in qualche modo, il vertice di un
cammino di odio che nasce quando l’uomo dimentica il suo Creatore e
mette se stesso al centro dell’universo. Come dissi nella visita del 28
maggio 2006 al campo di concentramento di Auschwitz, ancora
profondamente impressa nella mia memoria, “i potentati del Terzo Reich
volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità” e, in fondo,
“con l’annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio
che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi
dell’umanità che restano validi in eterno” (Discorso al campo di
Auschwitz-Birkenau: Insegnamenti di Benedetto XVI, II, 1[2006], p. 727). In
questo luogo, come non ricordare gli Ebrei romani che vennero strappati
da queste case, davanti a questi muri, e con orrendo strazio vennero
uccisi ad Auschwitz? Come è possibile dimenticare i loro volti, i loro
nomi, le lacrime, la disperazione di uomini, donne e bambini? Lo
sterminio del popolo dell’Alleanza di Mosè, prima annunciato, poi
sistematicamente programmato e realizzato nell’Europa sotto il dominio
nazista, raggiunse in quel giorno tragicamente anche Roma. Purtroppo,
molti rimasero indifferenti, ma molti, anche fra i Cattolici italiani,
sostenuti dalla fede e dall’insegnamento cristiano, reagirono con
coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli Ebrei braccati e
fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita, e meritando una
gratitudine perenne. Anche la Sede Apostolica svolse un’azione di
soccorso, spesso nascosta e discreta. La memoria di questi
avvenimenti deve spingerci a rafforzare i legami che ci uniscono perché
crescano sempre di più la comprensione, il rispetto e l’accoglienza.
La
nostra vicinanza e fraternità spirituali trovano nella Sacra Bibbia –
in ebraico Sifre Qodesh o “Libri di Santità” – il fondamento più solido
e perenne, in base al quale veniamo costantemente posti davanti alle
nostre radici comuni, alla storia e al ricco patrimonio spirituale che
condividiamo. E’ scrutando il suo stesso mistero che la Chiesa, Popolo
di Dio della Nuova Alleanza, scopre il proprio profondo legame con gli
Ebrei, scelti dal Signore primi fra tutti ad accogliere la sua parola
(cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 839). “A differenza delle altre
religioni non cristiane, la fede ebraica è già risposta alla
rivelazione di Dio nella Antica Alleanza. E’ al popolo ebraico che
appartengono ‘l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la
legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene
Cristo secondo la carne’ (Rm 9,4-5) perché ‘i doni e la chiamata di Dio
sono irrevocabili!’ (Rm 11,29)” (Ibid.).
Numerose possono
essere le implicazioni che derivano dalla comune eredità tratta dalla
Legge e dai Profeti. Vorrei ricordarne alcune: innanzitutto, la
solidarietà che lega la Chiesa e il popolo ebraico “a livello della
loro stessa identità” spirituale e che offre ai Cristiani l’opportunità
di promuovere “un rinnovato rispetto per l’interpretazione ebraica
dell’Antico Testamento” (cfr Pontificia Commissione Biblica, Il popolo
ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, 2001, pp. 12 e
55); la centralità del Decalogo come comune messaggio etico di valore
perenne per Israele, la Chiesa, i non credenti e l’intera umanità;
l’impegno per preparare o realizzare il Regno dell’Altissimo nella
“cura del creato” affidato da Dio all’uomo perché lo coltivi e lo
custodisca responsabilmente (cfr Gen 2,15).
In particolare
il Decalogo – le “Dieci Parole” o Dieci Comandamenti (cfr Es 20,1-17;
Dt 5,1-21) – che proviene dalla Torah di Mosè, costituisce la fiaccola
dell’etica, della speranza e del dialogo, stella polare della fede e
della morale del popolo di Dio, e illumina e guida anche il cammino dei
Cristiani. Esso costituisce un faro e una norma di vita nella giustizia
e nell’amore, un “grande codice” etico per tutta l’umanità. Le “Dieci
Parole” gettano luce sul bene e il male, sul vero e il falso, sul
giusto e l’ingiusto, anche secondo i criteri della coscienza retta di
ogni persona umana. Gesù stesso lo ha ripetuto più volte, sottolineando
che è necessario un impegno operoso sulla via dei Comandamenti: “Se
vuoi entrare nella vita, osserva i Comandamenti” (Mt 19,17). In questa
prospettiva, sono vari i campi di collaborazione e di testimonianza.
Vorrei ricordarne tre particolarmente importanti per il nostro tempo. Le
“Dieci Parole” chiedono di riconoscere l’unico Signore, contro la
tentazione di costruirsi altri idoli, di farsi vitelli d’oro. Nel
nostro mondo molti non conoscono Dio o lo ritengono superfluo, senza
rilevanza per la vita; sono stati fabbricati così altri e nuovi dei a
cui l’uomo si inchina. Risvegliare nella nostra società l’apertura alla
dimensione trascendente, testimoniare l’unico Dio è un servizio
prezioso che Ebrei e Cristiani possono offrire assieme. Le “Dieci
Parole” chiedono il rispetto, la protezione della vita, contro ogni
ingiustizia e sopruso, riconoscendo il valore di ogni persona umana,
creata a immagine e somiglianza di Dio. Quante volte, in ogni parte
della terra, vicina e lontana, vengono ancora calpestati la dignità, la
libertà, i diritti dell’essere umano! Testimoniare insieme il valore
supremo della vita contro ogni egoismo, è offrire un importante apporto
per un mondo in cui regni la giustizia e la pace, lo “shalom” auspicato
dai legislatori, dai profeti e dai sapienti di Israele. Le “Dieci
Parole” chiedono di conservare e promuovere la santità della famiglia,
in cui il “sì” personale e reciproco, fedele e definitivo dell’uomo e
della donna, dischiude lo spazio per il futuro, per l’autentica umanità
di ciascuno, e si apre, al tempo stesso, al dono di una nuova vita.
Testimoniare che la famiglia continua ad essere la cellula essenziale
della società e il contesto di base in cui si imparano e si esercitano
le virtù umane è un prezioso servizio da offrire per la costruzione di
un mondo dal volto più umano.
Come insegna Mosè nello Shemà
(cfr. Dt 6,5; Lv 19,34) – e Gesù riafferma nel Vangelo (cfr. Mc
12,19-31), tutti i comandamenti si riassumono nell’amore di Dio e nella
misericordia verso il prossimo. Tale Regola impegna Ebrei e Cristiani
ad esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i
poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i deboli, i
bisognosi. Nella tradizione ebraica c’è un mirabile detto dei Padri
d’Israele: “Simone il Giusto era solito dire: Il mondo si fonda su tre
cose: la Torah, il culto e gli atti di misericordia” (Aboth 1,2). Con
l’esercizio della giustizia e della misericordia, Ebrei e Cristiani
sono chiamati ad annunciare e a dare testimonianza al Regno
dell’Altissimo che viene, e per il quale preghiamo e operiamo ogni
giorno nella speranza.
In questa direzione possiamo compiere
passi insieme, consapevoli delle differenze che vi sono tra noi, ma
anche del fatto che se riusciremo ad unire i nostri cuori e le nostre
mani per rispondere alla chiamata del Signore, la sua luce si farà più
vicina per illuminare tutti i popoli della terra. I passi compiuti in
questi quarant’anni dal Comitato Internazionale congiunto
cattolico-ebraico e, in anni più recenti, dalla Commissione Mista della
Santa Sede e del Gran Rabbinato d’Israele, sono un segno della comune
volontà di continuare un dialogo aperto e sincero. Proprio domani la
Commissione Mista terrà qui a Roma il suo IX incontro su
“L’insegnamento cattolico ed ebraico sul creato e l’ambiente”;
auguriamo loro un proficuo dialogo su un tema tanto importante e
attuale.
Cristiani ed Ebrei hanno una grande parte di
patrimonio spirituale in comune, pregano lo stesso Signore, hanno le
stesse radici, ma rimangono spesso sconosciuti l’uno all’altro. Spetta
a noi, in risposta alla chiamata di Dio, lavorare affinché rimanga
sempre aperto lo spazio del dialogo, del reciproco rispetto, della
crescita nell’amicizia, della comune testimonianza di fronte alle sfide
del nostro tempo, che ci invitano a collaborare per il bene
dell’umanità in questo mondo creato da Dio, l’Onnipotente e il
Misericordioso.
Infine un pensiero particolare per questa
nostra Città di Roma, dove, da circa due millenni, convivono, come
disse il Papa Giovanni Paolo II, la Comunità cattolica con il suo
Vescovo e la Comunità ebraica con il suo Rabbino Capo; questo vivere
assieme possa essere animato da un crescente amore fraterno, che si
esprima anche in una cooperazione sempre più stretta per offrire un
valido contributo nella soluzione dei problemi e delle difficoltà da
affrontare.
Invoco dal Signore il dono prezioso della pace
in tutto il mondo, soprattutto in Terra Santa. Nel mio pellegrinaggio
del maggio scorso, a Gerusalemme, presso il Muro del Tempio, ho chiesto
a Colui che può tutto: “manda la tua pace in Terra Santa, nel Medio
Oriente, in tutta la famiglia umana; muovi i cuori di quanti invocano
il tuo nome, perché percorrano umilmente il cammino della giustizia e
della compassione” (Preghiera al Muro Occidentale di Gerusalemme, 12
maggio 2009). Nuovamente elevo a Lui il ringraziamento e la lode
per questo nostro incontro, chiedendo che Egli rafforzi la nostra
fraternità e renda più salda la nostra intesa.
[“Genti tutte, lodate il Signore, popoli tutti, cantate la sua lode, perché forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura per sempre”. Alleluia” (Sal 117)]
|
|
|
|
L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei
l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere
ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo
e-mail, scrivete a: desk@ucei.it indicando nell'oggetto del messaggio “cancella” o “modifica”. |
|
|