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L'Unione informa
 
    17 maggio 2009 - 23 Yiar 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Bendetto Carucci Viterbi Benedetto Carucci Viterbi, 
rabbino 
"Ben Zomà diceva: - Chi è veramente forte? Colui che domina il suo istinto" (Avot 4,1). Per chi pensa che la potenza si esplichi nei confronti degli altri.
Paura della libertà è un testo di Carlo Levi che conviene tenere tra le mani in questi giorni. E’ un testo composto nell’inverno 1940, mentre il nazismo si espandeva, la Francia crollava e gran parte dell’Europa dell’Est diventava dominio nazista sotto il nome di “Nuovo ordine Europeo”. Questa era la parola per dire Europa, allora. In quel testo, Levi rivolge un “messaggio in bottiglia” a un lettore che non c’è, comunque che non sa come raggiungere, mettendolo in guardia dal disincanto diffuso per la dimensione politica pubblica. Descrivendo il rapporto tra cittadino e Stato – ma più correttamente si potrebbe dire tra potere e suddito – Levi denunzia un eccesso della politica proprio sulla base e in forza di una sua spoliazione, ovvero in relazione e in conseguenza di una depoliticizzazione dell’individuo che gli sembra il carattere proprio dell’anticamera dei totalitarismi. E spiega come sia nella paura il cuore della macchina generativa del potere. Un potere che proprio mentre denuncia i mali della politica e tenta di accreditarsi attraverso l’offerta di protezione salvifica, riconferma la sua vocazione ad espropriare chiunque della sua possibilità e facoltà di decidere.  David
Bidussa,
storico sociale delle idee 
David Bidussa  
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  logo fiera Torino e i libri - Da Grossman a Kenaz a Bat Ye'or,
il grande appuntamento con la cultura ebraica


All'ingresso monumentali faraoni segnalano che alla Fiera del libro di Torino il paese ospite quest'anno è l'Egitto. Eppure già all'ombra di queste gigantesche statue di cartapesta decine di migliaia di visitatori vengono a prendersi la loro copia di pagine ebraiche, la pubblicazione a larga tiratura ricca di spunti di cultura e di informazione che l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sta diffondendo in questi giorni. E l'attenzione alla letteratura in lingua araba del Medio Oriente, grande protagonista dell'edizione in corso, si accompagna a un ricco e seguitissimo filone dedicato alla cultura ebraica e agli scrittori israeliani. Quasi che l'esperienza della Fiera 2008, dove tra mille polemiche l'ospite era stato Israele, abbia lasciato un segno indelebile. Nelle sale del Lingotto si possono incontrare scrittori del calibro di David Grossman o Yehoshua Kenaz, l'inglese Howard Jacobson autore delle surreali Kalooki nights, il newyorkese d'adozione André Aciman, il giovane statunitense Todd Hasak Lowy o l'arabo israeliano Sayed Kashua. E poi giornalisti, storici, politologi e tanti intellettuali del mondo ebraico italiano (tra cui molti collaboratori del Portale dell'ebraismo italiano www.moked.it).
Nei padiglioni affollati e rumorosi della Fiera del libro, che in quest'edizione 2009 vede come paese ospite l'Egitto, gli incontri si susseguono a ritmi serrati, spesso accavallandosi. Un'ora esatta di dialogo con l'autore, perché alla porta già preme il pubblico dell'evento successivo e poi via di corsa verso il prossimo appuntamento. Tra miriadi di sollecitazioni seguire una traccia culturale, come quella ebraica, è un esercizio del tutto arbitrario e spesso faticoso.

Venerdì ad aprire le danze sul fronte israeliano è Sayed Kashua, intervistato dal giornalista Stefano Jesurum. A 34 anni Kashua è un caso singolare nel panorama letterario. Arabo israeliano scrive in ebraico, firmando tra l'altro una popolare rubrica sul settimanale Kol ha'ir in cui racconta in toni scanzonati la quotidianità dei villaggi arabi. I suoi due romanzi tradotti in italiano, E fu mattina e Arabi danzanti (entrambi editi da Guanda) hanno segnato, per tanti lettori, una svolta nella percezione della realtà del mondo arabo israeliano. Nonostante ciò, spiega Kashua, è stato molto difficile trovare un editore in un paese arabo. Gli gioca contro la scrittura in ebraico (e forse non a caso la prima edizione araba delle sue opere uscirà a Beirut, città di secolare tradizione cosmopolita). Eppure, dice lui, nella scelta dell'ebraico non vi sono intenzionalità. “Non scrivo in arabo perché non ne sono capace – dice – L'ebraico è la mia prima lingua di scrittura, quella che ho appreso a scuola. Comunque non sono il primo arabo che scrive in ebraico, anche il grande Shamas l'ha fatto”. Ma la scelta della lingua esplicita in ogni caso una scelta di campo. “Non mi piace parlare di arabi e israeliani come di due parti contrapposte. Nella realtà viviamo una situazione di separatezza: io voglio però mescolare le regole del gioco”. E a confondere ancor di più le acque Kashua elenca i suoi autori preferiti. Tutti israeliani: al primo posto, Etgar Keret.

Le regole del gioco si sovvertono anche per André Aciman, nato ad Alessandria d'Egitto in una famiglia sefardita di origine turca, che  vive e lavora a New York. Intervistato da Elena Loewenthal, Emmanuelle de Villepin e Wlodek Golkorn, Aciman, di cui in italiano è appena uscito il romanzo d'ispirazione autobiografica Ultima notte ad Alessandria (Guanda), incarna un cosmopolitismo vissuto e sofferto. Il suo legame con il mondo dell'infanzia alessandrino, dove s'intrecciano in armonia lingue, culture e religioni, s'interrompe bruscamente con l'espulsione per un esilio che troverà approdo in un altro meltin'pot, quello newyorkese. In mezzo, una tappa in Italia. “Non mi sento egiziano – spiega Aciman – Non lo sono mai stato e non me l'hanno mai permesso. Ma non mi sento nemmeno statunitense. Mi sento un newyorkese così come una volta mi sentivo alessandrino, figlio di una civiltà che oggi non esiste più”. Ma quest'identità così volatile e per tanti versi così moderna porta con sé un dolore vivo e profondamente ebraico. “Quando la gente si sposta molto i morti rimangono abbandonati e pochi anni dopo sono dimenticati, quasi non siano mai esistiti. E' accaduto a intere generazioni di ebrei, anche alla mia famiglia. Da qui mi è venuta la spinta a scrivere il libro, perché si sappia com'era il mondo ormai scomparso d'Alessandria d'Egitto”.

Affonda le sue radici in Egitto anche l'esperienza di Bat Ye'or, lo pseudonimo che in ebraico significa Figlia del Nilo con cui è nota la scrittrice Giselle Littman, protagonista insieme a Ugo Volli e Dario Peirone di un incontro organizzato dall'Associazione Italia Israele. Nata al Cairo e naturalizzata britannica, Bat Ye'or è conosciuta come pioniera nello studio delle forme di sottomissione al dominio islamico e della Jihad. “Leggere i suoi libri – dice Ugo Volli – è importante per riuscire a guardare in controluce le notizie pubblicate dai media e capire davvero ciò che sta accadendo”. Per Bat Ye'or la direzione degli eventi è infatti molto chiara, come illustra nel suo libro Il califfato universale, da poco edito in italiano da Lindau. “In Occidente – spiega – è in atto un profondo processo di islamizzazione. Gli stretti legami fra l'Unione europea e la Conferenza islamica stanno indebolendo le identità nazionali e i valori religiosi europei così da rafforzare il potere islamico. Per questo le politiche di contenimento dell'immigrazione vengono definite razziste e vi sono forti pressioni per favorirla”. E sempre in direzione di una progressiva islamizzazione dell'Europa, dice Bat Ye'or, va inserito il prospettato ingresso della Turchia in Europa. “Il momento è molto critico – conclude – Se non lottiamo, anche a sostegno di Israele, rischiamo di perdere i nostri diritti e la nostra identità giudaica e cristiana”.

La giornata di sabato porta con sé l'appuntamento con due grandi della letteratura israeliana, Yehoshua Kenaz e David Grossman. Incontri molto diversi - raccolto e quasi sussurrato il primo, vibrante di applausi e affollatissimo il secondo – a significare un divario netto di poetica, linguaggio e, perché no, perfino esposizione mediatica. Intervistato da Elena Loewenthal, Kenaz – di cui Nottetempo ha da poco mandato in libreria Paesaggio con tre alberi - parla del mestiere di traduttore (traduce dal francese), di libri e di scelte letterarie con il rigore gentile di chi della riservatezza ha fatto una cifra di stile e di vita. “A 62 anni non ho ancora capito né perché si scrivono libri né perché si leggono  So soltanto che per me è una sorta di dovere – dice – Scrivere è molto diverso dal tradurre. Quando traduco m'immedesimo nell'autore e scrivo in ebraico come potrebbe fare lui stesso. Ma se sono io a scrivere non sono mai convinto di ciò che sto facendo. La storia inizia a girarmi per la testa e la lascio lì a passeggiare per un po'. Finché non mi decido a scrivere”. E nel processo creativo si dà una sorta di misteriosa trasfigurazione. “Non amo rileggermi. Ma quando lo faccio spesso mi stupisco di quel che ho fatto. Mi viene da dire: è troppo buono per me”. Potrebbe essere una sorta di prova del nove artistica. “In tutto ciò che ho scritto – dice infatti Kenaz - c'è un nucleo autobiografico. Non posso pensare d'iniziare senza questo nucleo da tenere in mano. Ma l'arte non è solo questo. E' quel tessuto di avvenimenti e personaggi che gli si costruisce intorno. E' questa la grande avventura della letteratura”.

Viaggia su tutt'altri binari l'incontro con David Grossman. A cominciare dalla sala, la più grande e lussuosa del Lingotto. Per entrare è indispensabile il biglietto. E i biglietti sono andati a ruba già di prima mattina. Ciò nonostante una coda chilometrica attende comunque all'ingresso nella speranza di rimediare in extremis un posto per ascoltare lo scrittore che vent'anni fa, con Vedi alla voce amore, fece scoprire all'Italia la letteratura israeliana. Esce il Nobel Orhan Pamuk, entra David Grossman. Lo accoglie un applauso scrosciante, da rockstar più che da raffinato autore. Lui sorride affabile, ringrazia. Ma non cede alle civetterie da divo e per un'ora abbondante, intervistato da Giovanna Zucconi, zooma su un panorama di vita, letteratura e politica di respiro ampissimo. A partire dal suo ultimo libro A un cerbiatto somiglia il mio amore (Mondadori), da mesi ai primi posti nelle classifiche dei best seller italiani, per approdare alla pace in Medio oriente.
“In Italia – dice – la gente si è mostrata ben disposta a esporsi a questo libro su un piano emotivo. All'inizio ero convinto che questo lavoro, che parla di Israele, dei suoi dilemmi e delle tensioni della sua vita, poteva interessare solo chi vive lì. Ma quando è stato pubblicato all'estero moltissimi lettori mi hanno detto che affronta invece temi universali: le paure, il modo di allevare i figli, i rapporti tra fratelli”. Grossman non nomina mai il figlio Uri, caduto sul fronte libanese nel 2006. Ma la sua presenza è palpabile in ciascuna delle parole che descrivono il libro, scritto dopo la sua morte.
Poi il discorso si sposta sulla scrittura (“il grande piacere dello scrivere è lo sforzo di comprendere gli altri, di vedere il mondo come loro lo vedono”) sui media (“siamo vittime di un linguaggio che manipola le persone e sminuisce la loro unicità. Tanti oggi sono attenti alla pulizia dell'ambiente o degli alimenti: perché non dovremmo prestare altrettanta attenzione alla purezza del linguaggio?) per concludere con la politica. Da Obama (“per la prima volta dopo molti anni ha parlato agli americani come a degli adulti: senza manipolarli o illuderli”) alle prospettive di pace. “Spero che Obama imponga a Nethanyahu la soluzione dei due stati. Voglio credere che il nostro primo ministro in fondo sta aspettando proprio che qualcuno lo costringa. Tutti noi sappiamo che la soluzione può arrivare solo da questa formula. Altrimenti tra poco entreremo in un ennesimo ciclo di violenza e sangue. E al termine ci ritroveremo al punto in cui siamo ora”.
Sono di nuovo applausi entusiasti. L'incontro si chiude e si apre uno dei rituali che alla Fiera del libro coinvolgono tutti gli autori, dall'esordiente alla star: la firma degli autografi. Superfluo sottolineare che la calca per David Grossman è numerosa ed entusiasta. La security ha ormai i nervi a pezzi. Un'addetta della casa editrice raccoglie i nomi per le dediche e lo scrittore firma una mole impressionante di volumi. Senza dimenticare un sorriso gentile, una parola e una stretta di mano per tutti.

Daniela Gross
 
 
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  aiuti abruzzo“Vi racconto la gratitudine degli ebrei di Libia.
Ecco perché vogliamo aiutare chi soffre”


Qualche mese fa, un aereo della sua compagnia che volava verso il Medio Oriente per portare il controvalore di centinaia di migliaia di euro in medicinali ai bambini di Sderot e di Gaza, aveva suscitato un'alzata di scudi da parte di chi non riusciva a comprendere il suo gesto. Ma per Walter Arbib non ci sono conflitti di interesse quando si tratta di aiutare gli altri. Ora si parla di nuovo di lui per gli aiuti che sta inviando alle popolazioni terremotate dell'Abruzzo. “Questo progetto è un’occasione speciale di esprimere  la mia gratitudine per l'aiuto che l'Italia  ha offerto a me e alla Comunità ebraica tripolina quando la Libia ha espulso gli ebrei dal Paese nel 1967» osserva Arbib, che quando fu costretto a lasciare il suo paese assieme a moltissimi altri ebrei aveva 26 anni.
«Abbiamo due possibilità nella vita, una è affrontare la realtà, l' altra è distogliere gli occhi», aveva dichiarato qualche mese fa in un'intervista rilasciata al Portale dell'ebraismo italiano. E lui gli occhi non li ha distolti mai, perché dell'aiuto agli altri ha fatto la sua filosofia di vita. Walter Arbib, 67 anni di origini tripoline, è l'amministratore delegato di Skylink Air and Logistics, una società canadese con un fatturato di 330 milioni di dollari che collabora per conto di numerosi governi a missioni di aiuto in zone di emergenza in tutto il mondo. La sua flotta, oltre ai jet e agli elicotteri, vanta  anche un enorme Antonov 124 capace di trasporti da 120 tonnellate e un'addestrata squadra di “good guys” i “bravi ragazzi”, operatori pronti a partire a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Il 5 giugno 1967, Arbib stava guidando la sua auto quando ascoltò alla radio che era scoppiata la Guerra dei Sei giorni e improvvisamente la sua vita cambiò. Con il pretesto del conflitto gli ebrei tripolini furono assediati nelle loro case. Al ricordo dei pogrom, delle case bruciate, dei beni confiscati, si associa quello dell'accoglienza che l'Italia offrì a centinaia di famiglie ebraiche che vivevano a Tripoli e, fra queste, alla famiglia di Walter.
“Io mi auguro che quelli della nostra età tramandino ai propri figli il senso della gratitudine per questo Paese. Quello che l'Italia ha fatto per noi non è una cosa scontata” osserva Arbib “Ricordo l'arrivo, e l'accoglienza. Non dobbiamo dimenticare mai che molti profughi ebrei hanno potuto ricostruirsi una vita grazie all'aiuto italiano”.
La permanenza di Arbib a Roma, durò poco tempo, si trasferì in Israele e nel 1988 in Canada dove fondò la SkyLink, ma una parte del suo cuore è rimasta qui in Italia “Mi considero equamente italiano, ebreo e canadese” dichiara con un senso di orgoglio “Quando ho sentito del terremoto in Abruzzo ho pensato che avevo finalmente l'occasione di fare qualche cosa, a nome degli ebrei tripolini, per questo Paese che nel '67 ci aveva accolto, ma che sarebbe stato anche un modo per esprimere la gratitudine agli abitanti di Fossa per gli aiuti dati ad alcune famiglie ebraiche durante la persecuzione nazista”.
Da esperto del settore, Arbib, esprime anche il suo apprezzamento per il modo in cui il Governo italiano ha gestito l'emergenza terremoto: “Penso che in questa occasione Berlusconi e Bertolaso e tutto il governo abbiano dimostrato grande efficienza”, osserva Arbib e aggiunge “Far conoscere il cuore degli italiani è un altro dei miei scopi, qualche tempo fa ho organizzato qui in Canada con la collaborazione della Comunità italocanadese una serata in onore di Giorgio Perlasca, perché mi sembrava giusto far conoscere ai canadesi un uomo eccezionale che ha donato la sua vita per salvarne delle altre.”
Walter Arbib si definisce un israeliano-italiano-canadese. Ma osservandolo da vicino ci si rende conto che probabilmente è qualcosa di più. Un ebreo che è voluto diventare cittadino del mondo.

Lucilla Efrati


Nell'immagine in alto uno fra i tanti colli di aiuti umanitari destinati ai terremotati d'Abruzzo. Queste scatole portano i simboli dell'Abruzzo Earthquake Relief Found, della Comunità ebraica di Roma e del Congresso ebraico canadese.

"Un contributo concreto e allo stesso tempo un gesto simbolico", afferma il presidente della
SkyLink Walter Arbib, "per dimostrare la riconoscenza all'Italia di noi ebrei di Libia che siamo stati accolti al momento dell'esilio". Il messaggio da parte della Comunità ebraica di Roma posto sulle confezioni destinate all'Abruzzo richiama invece il coraggio dimostrato dalla popolazione Abruzzese nel trarre in salvo alcuni perseguitati durante l'ultima guerra: "Al popolo d'Abruzzo, con affetto e stima ed eternamente grati per il coraggio dimostrato nei momenti tragici e bui dell'ultima guerra".
 
 
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L’“outing” degli ebrei: 
Un giornale per riaprire il dialogo 

Firme prestigiose, interviste e un inedito di Primo Levi 
100mila copie 
Il giornale sarà distribuito in tutta Italia

MessaggeroROMA - Che si tratti di numero unico o di numero zero, e il dilemma non è del tutto risolto, per adesso sono centomila copie con l’obiettivo dell’otto per mille. L’Unione delle comunità ebraiche italiane ha deciso di raccontarsi così, con un tabloid full color di 48 pagine appena uscito e distribuito in questi giorni alla Fiera del libro di Torino (non chiamatelo giornale, il presidente Gattegna non gradirebbe, piuttosto dossier), destinato ad aprire il dialogo col mondo “esterno”.
Volete sapere chi siamo, quale storia millenaria ci portiamo dietro, ma anche magari come procedono i restauri della sinagoga di Pisa, quali festival ebraici si organizzano in giro per l’Italia, dal cinema, alla letteratura, alla musica klezmer, com’è andata che dopo aver desalinizzato l’acqua del Mar Rosso un’innovativa azienda hi-tech israeliana è poi riuscita a vendere ad Austria e Svizzera cannoni sparaneve realizzati nel deserto. Ci sono notizie, commenti, storie, personaggi, un testo inedito di Primo Levi sul ruolo dell’immagine nell’elaborazione del ricordo, un’intervista al direttore dell’Osservatore Romano Giovanni Maria Vian che dice «Non fratelli maggiori, fratelli e basta. Un cristiano non può essere estraneo all’ebraismo».
Prove di dialogo, dunque, e cambio di prospettiva in vista della scadenza della dichiarazione dei redditi. «Abbiamo deciso di stampare questo dossier destinato agli opinion leaders italiani, ma anche a chiunque voglia saperne di più - spiega Renzo Gattegna, presidente dell’Ucei, l’Unione delle comunità ebraiche italiane - per tentare una strada nuova. Basta con le paginate di pubblicità per chiedere agli italiani una firma per l’otto per mille, quest’anno saremo l’unica confessione ad evitare gli spot televisivi, peraltro carissimi. Questi soldi che lo Stato ci attribuisce servono per opere sociali, culturali, assistenziali e ci è sembrato contraddittorio usarli per promuovere noi stessi. Meglio allora provare a raccontare all’Italia chi sono gli ebrei italiani, da venti secoli parte essenziale della vita civile, sociale e culturale, ma spesso incompresi per pregiudizi e luoghi comuni. Che poi questa pubblicazione possa costituire lo spunto per lanciare in autunno il giornale nazionale dell’ebraismo italiano che stiamo progettando, perché no?».
E allora che queste Pagine ebraiche (uscite come supplemento della Rassegna mensile di Israel e realizzate dal portale www.moked.it, in italiano “messa a fuoco”) servano o meno ad innalzare la quota dei 3,7 milioni di euro ottenuti l’anno scorso con l’otto per mille, provenienti sia dai 35mila ebrei italiani che da “simpatizzanti”, l’importante è farsi conoscere. Puntando su temi diversi rispetto alla Shoah e al conflitto arabo-israeliano. «Ci saranno firme qualificate - aggiunge Guido Vitale, direttore responsabile del portale Moked, da cui derivano queste Pagine, nonché coordinatore del Dipartimento cultura e informazione dell’Ucei - che hanno fornito il proprio contributo gratuitamente, dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni alla storica Anna Foa, dal professor Sergio Della Pergola alla scrittrice Elena Loewenthal, e ancora Giorgio Israel, Ugo Volli, Vittorio Dan Segre. Da segnalare i disegni di Paolo Bacilieri e Giorgio Albertini, un racconto dello scrittore Alessandro Schwed, autore del libro “La scomparsa di Israele”, un ritratto di Jonathan Pietra, italiano campione della Nazionale di karate israeliana, che si è trovato a fronteggiare discriminazioni e pregiudizi oltre che avversari sportivi». Molti gli argomenti rivolti ai giovani, come ad esempio i siti di social networking stiano cambiando anche il mondo ebraico o l’intervista a Idan Raichel, il Peter Gabriel israeliano. Ma c’è spazio anche per temi più delicati, come un servizio intitolato “Un modello di outsourcing che avvicina arabi ed ebrei” su una società di software che costruisce il suo processo di pace assumendo arabi israeliani. L’otto per mille, come ricorda l’Ucei, è cultura, memoria, solidarietà.

Francesca Nunberg, Il Messaggero, 16 maggio 2009

Giornali verso il Medio Oriente, di Cinzia Leone, Il Riformista

Gli ebrei si raccontano, L'Osservatore Romano

Immagini e pensieri dal Lingotto, www.torino.republicca.it

 
 
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La vigilia dell'incontro tra Obama e Netanyahu                              
e le dichiarazioni di John Kerry
Roma, 17 mag -
"Noi sosteniamo Israele. Ma la realtà sul campo deve cambiare: a noi sembra molto chiaro che gli insediamenti israeliani vanno congelati. Il presidente Obama sarà fermo su questo", così il presidente della commissione Esteri del Senato americano John Kerry spiega la politica degli Stati Uniti su Israele. E sottolinea: “Gerusalemme, diritto al ritorno dei profughi palestinesi, frontiere: tutto deve essere sul tavolo del negoziato". Kerry si augura che l'incontro tra Obama e Netanyahu sia produttivo e ribadisce: “La nostra posizione è chiara: vogliamo la soluzione dei due Stati. Crediamo che i palestinesi abbiano diritto a uno Stato, se non otterremo in fretta dei risultati, il futuro politico della regione sarà molto difficile”. Sull'Iran e il pericolo Ahmadinejad afferma: “L'Iran ci deve ascoltare: il nostro obiettivo non è un cambio di regime a Teheran. Noi stiamo cercando di creare un nuovo sistema di sicurezza in Medio Oriente e gli iraniani sono parte di questo sforzo".

Netanyahu, la proposta dei due Stati
e l'incontro con il presidente Barack Obama
Gerusalemme, 16 mag -
Questa sera è prevista la partenza del premier israeliano per Washington dove lunedì incontrerà il presidente americano Barack Obama. Due membri del Likud (partito del premier) affermano: “Benjamin Netanyahu dirà al presidente Obama di essere contrario alla creazione di uno stato palestinese”. Il deputato Ophir Akunis ne spiega le ragioni: “Il premier a Washington non si impegnerà a favore della creazione di uno stato palestinese, che rischia di diventare un Hamastan” e Israel Katz, ministro dei Trasporti aggiunge: "Netanyahu si opporrà alla creazione di uno Stato palestinese armato e confinante con Israele, perché uno Stato del genere metterebbe in pericolo la sicurezza di Israele".
 
 
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