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    5 gennaio 2009 - 9 Tevet 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma Riccardo
Di Segni,

rabbino capo
di Roma
Se si vuole avere una prova di quanto complicata sia l'esperienza ebraica, si vada a rileggere i capitoli 7 e 8 del profeta Zecharia (Zaccaria) che tornano all'attenzione alla vigilia del digiuno del 10 di Tevet, che sarà domani. Il digiuno era stato istituito per ricordare il triste giorno in cui i Babilonesi si affacciarono alle mura di Gerusalemme e cominciarono ad assediarla. 70 anni dopo l'esilio era finito, il Tempio in ricostruzione e i nuovi residenti di Eretz Israel si chiedevano che senso avesse ricordare una distruzione che non c'era più. Zaccaria, interrogato in proposito, non rispose direttamente ma annunciò, con un lungo discorso, i tempi in cui i giorni tristi sarebbero stati trasformati in feste. A 25 secoli di distanza, noi continuiamo a digiunare, con l'istruzione talmudica che quando la terra d'Israele sarà sotto possesso ebraico non si dovrà più digiunare. E' una discussione che riassume temi essenziali dell'ebraismo, come quelli della precarietà e della speranza e ne suggerisce interpretazioni e soluzioni. Non c'è bisogno di sottolinearne l'attualità in questi giorni angoscianti di guerra.
E’ solo un aspetto che ci riguarda più da vicino della tragedia che si sta svolgendo a Gaza. Ma colpiscono le immagini delle manifestazioni anti-israeliane in Italia. Protagonista non ne è più la sinistra radicale italiana, sia pur con l’attiva presenza di gruppi palestinesi, e nemmeno i palestinesi stessi, ma gli islamici presenti nel nostro paese, uomini, donne velate, bambini. L’immagine degli oranti piegati sul sagrato del Duomo ben simboleggia l’anima religiosa di questa protesta. Non sono le solite manifestazioni  politiche, sia pur violente, ma proteste fondamentaliste piene di rabbia e di odio. E la svastica è riapparsa, dopo tanto tempo, a simboleggiare Israele. Inquietante, forse anche non inaspettato, ma è bene avere coscienza della svolta che sta compiendosi. Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  tempio_dopo Beni da salvare 4 –
Casale Monferrato e i suoi tesori
 

Il restauro del tempietto del cimitero di Casale.
Quella di Casale Monferrato è un'antica Comunità che risale a circa 500 anni fa. Quando, nel 1724 Vittorio Amedeo II impose l'obbligo di trasferimento nei ghetti, nell'ampio quartiere situato fra  Via d'Azeglio e Via Balbo, via Roma, vicolo Castagna e Piazza San Francesco, risiedevano già molte famiglie. Da un censimento del 1761 risulta che a Casale vivevano 136 nuclei ebraici per un totale di 673 persone. La sinagoga, gioiello di architettura tardo barocca piemontese, situata proprio nel cuore del vecchio ghetto, risale al 1595 e nel corso dei secoli ha subito modifiche e ampliamenti.
Si tratta di un monumento di inestimabile valore, visitato da un flusso incessante di turisti e di intenditori che vogliono scoprire uno dei tesori nascosti d'Italia.
Ma la realtà ebraica di Casale racchiude anche altre testimonianze preziose.
Nell'area casalese vi sono anche due cimiteri, il primo e più antico situato in Via Negri , il cui utilizzo iniziale risale al 1732, e il secondo situato su un appezzamento di terreno quadrato dato in concessione dal municipio alla Comunità Ebraica di Casale nel 1893 e attualmente utilizzato, si trova in via Cardinal Massaia. Nel suo interno un tempio costruito ai primi del '900 progettato da Enrico Bertana e Lorenzo Rivetti con belle vetrate ed iscrizioni in lingua ebraica tratte dai Salmi.
Nel 2005 la Comunità ebraica di Casale ha presentato un progetto ed ottenuto i fondi ex legge 175 per interventi di restauro  conservativo del Tempietto del cimitero e del annesso viale di accesso ormai non più agibile.
La realizzazione di questo progetto, certificato dalla Sovrintendenza di Torino, affidata agli architetti Daniele Muzio per la parte riguardante la progettistica e la direzione dei lavori e Giulio Bourbon direttore del Museo ebraico di Casale per la parte riguardante la direzione artistica, ha richiesto l'impegno di un importo di circa centocinquantamila euro, interamente finanziati con  la legge 175.

tempio_prima

(A fianco l'immagine del tempio prima dei lavori di restauro. In alto lo stesso tempio a lavori ultimati)






I lavori di restauro, durati circa due anni, hanno consentito il consolidamento del soffitto e delle pareti e delle vetrate del tempio, il rifacimento dell'impianto elettrico, la pulitura di manufatti in pietra il restauro di stucchi e cementi ed il restauro pittorico di soffitto e volte con dorature.
"Quella realizzata è solo una parte di un progetto molto più ampio, afferma il Presidente della Comunità ebraica di Casale, Giorgio Salvatore Ottolenghi, che prevede anche la ristrutturazione di tutte le zone verdi, della casa del custode e del muro di cinta del cimitero".
"In realtà, prosegue Ottolenghi, anche l'antico cimitero di Via Negri meriterebbe di essere restaurato perché racchiude tombe molto antiche, ma in questo momento l'esigenza principale era quella di rendere di nuovo agibile il tempio del cimitero di Via Cardinal Massaia, tuttora in uso".

Lucilla Efrati
 
 
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  libro_immagineStalin e la nascita dello Stato di Israele
I  fattori che hanno condizionato la storia

“A volte il lavoro di un giornalista, e perfino quello di un giornalista televisivo, riesce a colmare anche le lacune dello storico. Accade soprattutto quando gli studiosi danno per scontato e accantonato un dato evidente per il tempo in cui vivono. Succede poi che quell’evidenza si stemperi negli avvenimenti successivi, fino a scomparire dalla memoria comune e dai manuali” Sono le parole con cui Enrico Mentana apre la sua introduzione al volume Perché Stalin creò Israele (Sandro Teti editore, 212 p., €.17,00) un libro di Leonid Mlečin, giornalista televisivo russo, già vicedirettore del quotidiano “Izvestija”.

Il libro di Mlečin consente di ricostruire ampiamente una linea politica che spesso è stata spiegata come scelta tattica, come schieramento estemporaneo in relazione a un vuoto che le potenze occidentali avrebbero improvvisamente determinato in base alle loro scelte di convenienza: da una parte l’Inghilterra cosciente della fine del proprio Impero, ma interessata a mantenere un rapporto di buon vicinato con i regimi dei nascenti Stati arabi; dall’altra gli Stati Uniti maggiormente impegnati verso una politica di pacificazione che non a una di schieramento. In quel vuoto, a un certo punto si inserisce l’Unione sovietica staliniana e la decisione di Stalin di appoggiare espressamente e esplicitamente il progetto di spartizione che consentiva a Israele di nascere come Stato autonomo.
Come spiega Luciano Canfora nella sua presentazione e come ampiamente racconta Mlečin quella decisione si colloca lungo una linea che risponde ai dettami di una politica estera e al tentativo di entrare nel quadro mediorientale. E tuttavia anche se una parte consistente di quella scelta che matura esplicitamente e pubblicamente tra la seconda metà del 1946 e il 1947 e che porta poi al volto del 29 novembre 1947 che sancisce la spartizione, risponde a interessi di politica internazionale e si manifesta contemporaneamente a l restringimento nei confronti della minoranza ebraica in  Urss delle sue posizioni sociali e anche politiche all’interno del sistema, non tutto è spiegabile con quel criterio.
Mlečin ricostruisce una politica economica, di collaborazione, di scambi economici e culturali, di sistema di import-export che non risponde solo a interessi commerciali o di presenza sul territorio. E’ un sistema che si delinea in maniera incerta e molto episodica già nei primi anni ’20, che poi si eclissa per circa venti anni per riemergere all’inizio degli anni ’40 e progredire tra 1941 e 1948 sistematicamente. Attraverso rapporti diplomatici, politici, economici e commerciali costanti.
Conta in questa scelta la necessità di trovare uno sbocco mediterraneo; di avere un sistema confinario non nemico. Ma conta anche una classe politica con cui si avvisano affinità. E infine conta la non concorrenza delle potenze occidentali.
Israele nasce per un incrocio di cause. Perché si produca una realtà politica in cui economia e società s’incontrino, è necessario che coesistano molti elementi. Occorre che si dia una statualità amministrativa; si costituisca un diritto di rappresentanza parlamentare a suffragio più o meno ristretto e che si definisca anche un ethos rispettivamente: di separazione tra società civile e Stato, di laicizzazione, di regole e di garanzie associative.
In forme ancora non compiute, ma certamente individuate la realtà sociale della presenza ebraica nella Palestina mandataria si era mossa tra anni ’20 e anni ’40 in questa direzione. Nel momento in cui le Nazioni Unite il 29 novembre 1947 votano la spartizione della Palestina questa era la condizione del gruppo ebraico-palestinese. Dunque: quel soggetto politico che il 15 maggio 1948 diventa Israele aveva gli uomini, le strutture e l’articolato politico, sociale, amministrativo capace di mettere in piedi uno Stato e presumibilmente di renderlo un soggetto politico durevole nel tempo.
C’era una condizione esterna, c’era l’orrore della Shoah, ma soprattutto l’insediamento ebraico in Palestina aveva prodotto, attraverso un processo selettivo anche conflittuale interno, un corpo politico in grado di dare figura ad uno Stato. Per questo nel 1948 la nascita dello Stato di Israele è stata possibile. Era una scommessa, ma è stato possibile.

Ma nel voto del 29 novembre 1947 convergevano anche altre cause e altre forze.  Le condizioni sociali o amministrative interne per quanto necessarie non era sufficienti. Occorreva anche una strategia politica, una tattica, un’idea di schieramento nel sistema delle relazioni internazionali. Insomma il problema non era solo chi si era, ma anche dove ci si collocava. Israele nasce anche perché, e non improvvisamente o congiunturalmente nell’autunno 1947, si stabiliscono intese con l’Unione sovietica. Intese  che hanno una storia anche lunga in una lenta marcia di avvicinamento sia da parte del gruppo dirigente dell’Yishuv sia da parte sovietica.
Quando orgogliosamente Gromyko – nel 1947 ambasciatore all’Onu – ripeterà ancora negli anni ’80 indicando la sua mano destra “È con questa che quarant’anni fa votai all’Onu a favore della nascita di Israele”, ricorda una condizione che probabilmente non voleva essere momentanea o congiunturale. Le scelte politiche di tutti gli attori politici (a cominciare dagli Stati Uniti allora tiepidi per non dire contrariati dall’ipotesi della spartizione e dall’Unione sovietica con le sue politiche persecutorie nei confronti degli ebrei russi, già nel 1950) successivamente cambiarono radicalmente e oggi forse ricordare che ci furono un tempo una politica sovietica filoisraeliana e una politica israeliana non così insensibile nei confronti dell’Urss, suscita curiosità, forse anche stupore.
Israele ha Stalin tra i suoi sostenitori iniziali – anche prima del voto sulla spartizione.  Anzi in  quel gioco diplomatico tra molti incerti e molti indifferenti , Stalin non solo fu una figura centrale, ma persino determinante. Una scelta che per molti aspetti può apparire oscura, sorprendente e perfino contorta o “contro natura”, ma che dice che nella storia contano molte cose e che niente è scritto fin dall’inizio.

David Bidussa
 
 
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Operazione piombo fuso, decimo giorno. Le cronache (per esempio Fabio Scuto su Repubblica Furio Morroni sul Tempo, Davide Frattini sul Corriere) riportano i fatti sul terreno, almeno per quel che se ne può capire: l’operazione prosegue con successo, alcuni capi militari di Hamas sono stati uccisi e con loro parecchi miliziani, è morto anche un soldato israeliano e purtroppo non sono mancate le vittime civili. Non ci sono stati però quei danni gravi alle forze di Tzaahal che i terroristi di Hamas minacciavano; l’apparato di mine, tunnel trappola e missili anticarro per ora non ha bloccato l’azione israeliana né ha provocato le numerose vittime che si temevano (ma i feriti sono una cinquantina). Il rapimento di due soldati, annunciato ieri, è rimasto per fortuna un puro annuncio propagandistico. D’altro canto però Tzahal non ha potuto ancora arrestare del tutto i lanci di razzi contro il territorio israeliano. Per capire la posizione del governo israeliano è utile leggere l’intervista dell’ambasciatore Gideon Meir al Tempo. Interessanti come sempre le analisi tattiche di Guido Olimpo sul Corriere.
Tutti si chiedono come e quando finirà la guerra. Per capirlo bisogna considerare la posta in gioco ed è opportuno iniziare dall’analisi di R.A. Segre sul Giornale. Israele non combatte solo per far cessare la pioggia di razzi verso il suo territorio, ma per la sua sopravvivenza. Deve vincere in maniera convincente per disarmare almeno per un po’ di tempo la determinazione degli islamisti a distruggerlo e far emergere (sperabilmente) le contraddizioni nel mondo arabo. Per questo, come sostiene con forza Fiamma Nirenstein sempre sul Giornale, le richieste di tregua immediata da parte dell’Europa e anche della sinistra italiana sono sbagliate e irricevibili.
Queste considerazioni di Nirenstein entrano in pieno nella cronaca politica italiana, dove Walter Veltroni ha attaccato frontalmente il Ministro degli esteri Frattini, avvicinandosi alla posizione di D’Alema e Bersani. Non che nel PD non vi siano altre voci (Fassino e Vernetti, per esempio), ma è chiaro che sulla questione di Gaza corre ora una frattura fra partiti. Per una cronaca, si può vedere l’articolo di Ugo Bonasi su Giorno-Carlino-Nazione e quello di Fabrizio Rizzi sul Messaggero; la posizione del governo è illustrata da un’intervista a La Russa sul Giornale. Le posizioni dell’opposizione sono riassunte in un articolo di Roberto Monteforte e da un’intervista di Fassino sull’Unità
. Da leggere anche l’intervento di Umberto Ranieri sul Mattino. E’ critica Frattini, ma chiedendo una maggior durezza contro Hamas, anche un’intervista di Antonio Martino sulla Stampa. Un commento molto polemico contro Veltroni è firmato da Carlo Pannella sul Tempo. Equilibrata e ben argomentata è la presa di posizione in appoggio a Israele del presidente dell’Ucei Renzo Gattegna in un’intervista a Giorno-Carlino-Nazione.
Ma anche in Europa le posizioni si stanno divaricando e confondendo, con la doppia missione (quella ufficiale guidata dalla Cechia, presidente di turno della comunità e quella francese) che arrivano oggi in Israele. Un’analisi interessante si trova sull’articolo di Stephen Castle e Kattrin Bennhold dello Herald Tribune; un’altra nel pezzo di Pier Paolo Pittau sul Messaggero. E’ interessante leggere su questo tema un duro editoriale di Enzo Bettiza sulla Stampa.
Ma che succederà alla fine della guerra? Battistini sul Corriere intervista l’editorialista Nahum Bernea di Yediot Achronot, che sostiene l’importanza strategica dell’Egitto per l’uscita dalla guerra e aggiunge una sua nota in cui pone il problema di cosa fare della dirigenza di Hamas dopo la guerra, se distruggerla tutta, il che è difficile, o cercare solo di contenerne la bellicosità. L’analisi di Segre che abbiamo già citato propone uno scenario molto cautamente positivo, se l’offensiva avrà successo. Gilles Paris, su Le Monde sostiene che uno degli effetti della guerra potrebbe essere quello di imporre cautela a Obama quando avrà assunto la presidenza; è possibile che prevalga l’approccio “dal basso”, economico prima che politico” proposto da Netanyahu in Israele. Una prospettiva altrettanto poco convenzionale è quella esposta da Lucio Caracciolo su Repubblica: il conflitto israelo-palestinese non ha davvero importanza se non per le politiche interne dei due campi, la costituzione di uno stato palestinese non è oggi possibile e nemmeno auspicabile, la nazione palestinese non esiste, ma è una galassia di bande in concorrenza fra loro, il conflitto vero si svolge fra Israele e Iran e fra paesi arabi moderati e estremisti; i palestinesi sono una pedina in questi confronti, che certo non potranno finire con la conclusione dell’operazione di Gaza.
Lo stratega francese Guillaume Billan, in un’intervista di Liberation riportata dal Secolo XIX aggiunge un possibile obiettivo all’azione israeliana: indebolire abbastanza Hamas perché Fatah possa vincere le prossime elezioni: ma bisogna vedere se e quando ci saranno. Qualcosa del genere, almeno rispetto al peso dell’Iran, sostiene anche Amos Luzzatto in un’intervista al Messaggero. Nell’analisi bisogna tener conto anche degli altri soggetti in gioco, in primo luogo dei paesi arabi moderati. E’ interessante leggere le spiegazioni di Guido Rampoldi su Repubblica della politica egiziana nei confronti di Hamas: la questione è più complessa del conflitto fra solidarietà araba e rifiuto dell’estremismo: vi è in gioco il destino e la natura dello stesso stato egiziano.

Una polemica italiana riguarda le manifestazioni estremiste di sabato, con la vecchia squallida coreografia di bandiere israeliane e americane bruciate, Maghen David accostate a svastiche, caricature antisemite dei dirigenti israeliani. La novità più rilevante è stata la preghiera islamica collettiva sul sagrato delle cattedrali di Milano e Bologna. In merito a questo punto interviene polemicamente Vittorio Messori sulla Stampa. Parla di rischio di scontro il sociologo Khaled Fouad Allam sul Corriere. Va letto anche l’articolo più perplesso di Michele Brambilla sul Giornale. E’ interessante l’analisi di Giancarlo Galeazzi sulla Stampa sul “pericolo della seconda generazione” degli immigrati provenienti dai paesi arabi: sono loro, come l’anno scorso quelli francesi della protesta delle banlieu a guidare le proteste e a renderle più combattive. Sul tema delle bandiere bruciate si esprime l’ambasciatore Meir in un’intervista al Giornale e prende posizione anche Gad Lerner sul suo blog, come informa una breve del Corriere.
Al di là della guerra sulla rassegna di oggi c’è poco. Da non perdere però sul Corriere la rievocazione di Dino Messina della nota diplomatica personalmente dettata da Mussolini in cui nel febbraio 1938 si smentiva l’intenzione del regime fascista di procedere a una legislazione antisemita.

Ugo Volli

 
 
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Gaza, ancora razzi su Israele
Gerusalemme, 5 genn -                                           
Dieci razzi sono caduti stamane in diverse località nel Sud di Israele, inclusi i centri di Gadera e Kiriat Malachi che distano da Gaza decine di chilometri, non si registrano vittime. Nei combattimenti in corso, oltre a un soldato ucciso ieri, i militari feriti sono 53 (6 di questi tra la scorsa notte e stamane), quattro di questi sono in gravi condizioni.
Fonti palestinesi riferiscono invece di almeno 524 palestinesi uccisi, in parte civili.
Tra stanotte e questa mattina, secondo le stesse fonti, sarebbero 12 i civili uccisi, fra questi almeno 3 bambini.
Autorizzato da parte israeliana l'ingresso a Gaza di un convoglio di decine di autocarri di aiuti umanitari.
Soddisfatto il vice ministro della difesa israeliano Natan Vilnai, che intervistato alla radio pubblica, ha affermato che le operazioni militari stanno procedendo bene e ogni giorno che passa Israele si avvicina ai 
propri obiettivi.
Tra gli obiettivi di Israele, oltre a quello di ridare la quiete alla popolazione a sud, vi è quello di impedire il futuro riarmo di Hamas.

L'Iran ha chiesto all'Egitto un ospedale da campo per i feriti palestinesi
Teheran, 5 genn -
"Una richiesta per aprire un ospedale da campo iraniano per curare i feriti palestinesi è stata inviata dal ministro degli Esteri Manuchehr Mottaki alla sua controparte egiziana, e siamo in attesa di una risposta" - questo quanto dichiarato dal portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, Hassan Qashqavi durante la sua conferenza stampa settimanale.
Da quando è cominciata l'offensiva israeliana nella Striscia di Gaza si susseguono a Teheran le manifestazioni di studenti fondamentalisti contro l'Egitto, accusato di complicità con lo Stato ebraico. Ieri sera, per il settimo giorno consecutivo, si è svolto un raduno di protesta davanti alla sezione d'interessi dell'Egitto nella capitale iraniana, con slogan ostili gridati contro il presidente Hosni Mubarak.
La Repubblica islamica è tra i principali sostenitori di Hamas e ha sempre avuto rapporti travagliati con il Cairo per l'accordo di pace firmato dallo Stato arabo nel 1978 con Israele, di cui Teheran non riconosce il diritto all'esistenza


Gaza: Ccg condanna l'incursione israeliana e critica l'Onu     
Dubai, 5 genn -                                                    
"Il prevedibile risultato del silenzio internazionale sull'arroganza israeliana" queste le parole usate dal Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg) per definire e condannare l'offensiva terrestre lanciata da Israele nella Striscia di Gaza. Del Consiglio fanno parte i seguenti stati: Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Oman. Il segretario generale del Consiglio Abdul Rahman Al Attiyah ha criticato "la posizione delle potenze dell'Onu che ostacolano gli sforzi volti a fermare l'aggressione israeliana", con un implicito riferimento alla posizione degli Stati Uniti che ha impedito ieri la formulazione di una dichiarazione del Consiglio di Sicurezza per un cessate il fuoco nei combattimenti a Gaza. Il blocco dei paesi petroliferi del Golfo ha inoltre esortato la "neo eletta amministrazione americana perché dia priorità alla causa palestinese e alla necessità di giungere a una pace regionale giusta e comprensiva". Ha altresì reiterato alle fazioni palestinesi l'urgenza della loro "unità e riconciliazione".
 
 
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